La verità e lo storico

Il diverso valore dei soldati durante le guerre.

Lo sconcertante approccio che contraddistingue numerosi giornalisti e perfino qualche storico, diciamo così, tangenziale, alla questione storiografica della quintessenza degli “Arditi”e dell’arditismo, nella sua formidabile valenza metaforica, adesso a bocce ferme, ci permette di affrontare una questione riguardante il metodo e la deontologia professionale dello storico. Perciò, in questo breve intervento, non vorrei semplicemente polemizzare con affermazioni che reputo poco più che boutades o, se si vuole, sciocchezze ad uso televisivo, quanto, piuttosto, fare alcune riflessioni sul metodo storico e su come lo si possa, serenamente, saltare a piè pari.

Dalla Grande Guerra in poi

Insomma, per capirci, ad un periodo in cui gli studiosi, per evidenti pressioni politiche, hanno celebrato acriticamente i combattenti della Grande Guerra, senza distinzioni e, soprattutto, senza apparati scientifici, ha fatto seguito un’altra fase, in cui gli storici, per analoghe pressioni politiche, sebbene, forse, meno evidenti, hanno cooperato nella descrizione di un esercito italiano fatto soprattutto di aspiranti disertori e renitenti o, in contrapposizione, di assassini maniacali e avventurieri delinquenti. È ovvio che entrambe le visioni siano del tutto strabiche e, soprattutto, che rappresentino l’esatto contrario di quella che dovrebbe essere la deontologia di uno storico.

I reparti d’assalto

Per cominciare, il fenomeno dei reparti d’assalto andrebbe, perlomeno un pochino, contestualizzato: i soldati d’assalto non derivarono dalla decantazione degli elementi deteriori dei vari eserciti o dall’agglomerarsi di banditi presi dalle patrie galere, ma furono creati con presupposti elitari e con una precisa ed accurata selezione. Essi nacquero da un’esigenza tattica che veniva condivisa da tutti gli eserciti belligeranti, ossia quella di superare l’impasse rappresentato, nella prima parte del conflitto, dal prevalere della difesa sull’attacco. Le menti più acute dei vari schieramenti cominciarono ad elaborare, dopo i massacri senza costrutto del 1916, un nuovo sistema operativo: nuove idee di approccio ai campi trincerati avversari. Brussilov, Ludendorff o, più nello specifico, Rohr e Bassi, compresero la necessità di creare appositi reparti, addestrati specificamente per il primo assalto alle posizioni avversarie: questo diede origine in tutti gli eserciti alla creazione di truppe speciali, da utilizzare come avanguardia delle masse operative o, come nel caso degli Italiani, per azioni singole di estrema difficoltà. Nacquero così, nell’estate 1917, i reparti d’assalto di Sdricca di Manzano: contingenti relativamente modesti di uomini superaddestrati, supermotivati e superarmati, rispetto agli standard della fanteria italiana di allora, che non avrebbero dovuto conoscere l’impiego in trincea, ma solo un utilizzo puntuale, per specifiche operazioni, dopo le quali avrebbero dovuto essere allontanati di nuovo dal campo di battaglia.

I volontari

Va da sé che simili reparti avrebbero dovuto possedere caratteristiche loro proprie, sia sul piano dello spirito di corpo che su quello del reclutamento: la motivazione e il coraggio dovevano essere di molto superiori alla media, allora piuttosto depressa, del Regio Esercito. Per questo, si decise di scegliere solo il meglio dei reparti operanti: volontari che possedessero doti eccezionali di combattività e di resistenza fisica. Dato che questo era il criterio, inevitabilmente gli Arditi divennero il collettore di personalità e di uomini molto diversi per caratura morale e per ideali: i loro veri traits d’union erano, in un certo senso, la capacità di uccidere e il desiderio di farlo. Questo il dato storico. A Sdricca arrivò gente mossa dal più puro spirito risorgimentale così come soldati stanchi di trincea e desiderosi di soldo e di vitto migliori: tutti, però, dovettero introiettare un nuovo credo, che fu quello dell’ardito. E si trattava di un credo tutt’altro che criminale e per tutti meno che per disadattati.

La morte in guerra

Sfidare la morte non è attività per psicolabili o per delinquenti abituali: i primi non sono affidabili e i secondi, solitamente, sono dei vigliacchi. Catalogare tout court questa varietà umana come un gruppo di disagiati e di potenziali criminali è, perciò, operazione, più che insensata, inutile: l’eroe di guerra sarebbe, inevitabilmente, un criminale in pace. In tempo di pace, chi uccide più persone è un pluriomicida: in tempo di guerra è un soldato valoroso. La storia non si può scrivere adottando parametri inadeguati al fenomeno che si esamina: con questo criterio, Giulio Cesare sarebbe stato un feroce xenofobo ed avrebbe prodotto un olocausto. E che dire di Garibaldi, di Napoleone o perfino di Gandhi? Insomma, la sensazione è che tutti questi detrattori professionali, che hanno trovato nelle celebrazioni del centenario della Grande Guerra e di Fiume enorme spazio, forse accecati dalla necessità di ricondurre all’arditismo lo squadrismo fascista, abbiano dimenticato che, a differenza delle camicie nere, i reparti d’assalto si trovavano a combattere una guerra e non una rissa in piazza. Pare ovvio che, in una guerra, un concetto come il disadattamento di massa, appaia ridicolo e che la criminalità si misuri con parametri affatto peculiari.

Gli aspiranti storici militari

Nella storia militare, si analizzano le caratteristiche dei reparti, tenendo sempre conto del dato originario, che è l’eterogeneità degli stessi: altrimenti, si rischierebbe di scambiare per sciovinismo e disagio sociopatico lo spirito di corpo del Black Watch o dei Gibraltar. Insomma, questa legione di aspiranti storici militari ci ha dato una bella dimostrazione di come non si dovrebbe mai parlare di storia: genericamente, pressapochisticamente e, soprattutto, con un fine ideologico e non scientifico. Lo storico sa che non arriverà mai alla verità: pure, cerca sempre di avvicinarcisi. Chi crede di avere la verità in tasca o la camuffa per scopi diversi dalla scienza, semplicemente, non è uno storico.

Una risposta

  1. Il compito dello storico non è affatto facile,bisogna poi discernere tra storia e memoria del singolo o collettiva.Marco Cimmino,un serio professionista,invidio gli alunni che hanno la fortuna di ascoltare le sue ore di insegnamento,un ottimo professore ha la possibilità di influenzare positivamente il futuro di un alunno.

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