Le origini dello “Shell Shock”

Lo shock da granate riportato da molti soldati ed ufficiali di tutti gli eserciti nel corso della Grande Guerra.

Nel Lancet uscito il 13 Febbraio 1915, compare un articolo a firma di uno psicologo e psichiatra, Myers, dal titolo all’epoca ambiguo, “A Contribution to the Study of Shell Shock” (“Sullo studio dello “Shock da Granate”). Nasce così il termine, vero e proprio neologismo, che identifica uno spettro di disturbi dalla origine all’epoca non nota, riferibili alla sfera nervosa ma anche di probabile natura psichiatrica che tendeva ad affliggere taluni soldati al fronte durante la Grande Guerra. Entrando nel dettaglio Myers all’epoca si trovava sul fronte francese e aveva identificato tre casi specifici che avevano colto la sua attenzione. Si trattava di tre soldati dalla sintomatologia estremamente differente ma tutti accomunati da una apparente integrità fisica, che si ritrovavano ad essere soccorsi e ricoverati nell’ospedale militare, per la presenza di un disturbo sicuramente di natura nervosa, tanto invalidante da render loro impossibile la normale prosecuzione della vita al fronte.

Le prime idee sulla teoria

Inutile dire che l’articolo rappresentò uno spartiacque per la medicina militare, ma in generale per gli eserciti in toto. Per quanto la casistica mostrata da Myers fosse limitata, evidenziava sin da subito l’estrema eterogeneità sintomatologica del termine: si passava dalle palpitazioni, ai dolori muscolari, passando per la difficoltà a dormire, la perdita di coscienza improvvisa, svenimento, difficoltà respiratorie, senso di disorientamento, appiattimento emotivo e talvolta offuscamento visivo e riduzione della capacità uditiva. In prima istanza Myers non ebbe la capacità di dare una sua teoria eziologica di quanto fosse alla base dello shock da granata ma si limitò a descrivere i tre casi e con la speranza di poterli seguire nel tempo e valutarne gli esiti a lungo termine. Myers probabilmente non si era reso conto di aver creato un precedente: se si fosse venuto a sapere tra le linee che chiunque al fronte, banalmente perché totalmente inesperto all’uso delle armi e agli scenari bellici potesse di fronte ad uno scenario di guerra avere dei sussulti emotivi dovuti alle avanzate del nemico piuttosto che disperazione dovuti al freddo, alla fame o alla lontananza da casa tali da causargli turbe emotive e disagi psicologici che, associati alla definizione tanto eterogenea quanto ampia dello shell shock garantivano al soldato il ricovero e a quel punto previa la valutazione nelle retrovie da parte del medico militare poter abbandonare definitivamente la linea del fronte.

L’Ufficio della Guerra britannico

Per ovviare a tale rischio il ministero della Difesa Britannico, capitanato dall’Ufficio di Guerra, si affrettò alla ricerca di una causa che potesse definire in maniera inconfutabile l’origine di questo disturbo in modo tale da evitare diaspore di massa dal fronte oppure più semplicemente un ingente numero di richieste di ricovero e visita presso gli ospedali militari da campo. Tra i primi ad esaminare la questione fu Frederick Mott il quale, direttore del laboratorio di patologia del London County Council, era un eminente figura nel campo dello studio della neuropatologia e nello studio delle malattie mentali, incaricato proprio dall’Ufficio di Guerra britannico. In un articolo denominato “The microscopic examination of the brains of two men dead of Commotio Cerebri, without visible external Injury” comparso il 10 novembre 1917 nel British Medical Journal, Mott definiva per la prima volta lo Shock da granata come un disturbo di carattere prettamente fisico, ribattezzandolo “Commotio Cerebri”. L’origine del disturbo era da attribuire secondo Mott ad una forma di commozione cerebrale derivante dallo scoppio degli ordigni esplosiva tale da garantire una lesione delle strutture nervose che poteva essere anche fatale: in particolareconsiderò il tipo di lesione nelle sue forme più estreme paragonabile a quello della intossicazione da monossido di carbonio, sulla base di alcune ricerche compiute su campioni istologici dal suo laboratorio.

L’ipotesi di Frederick Mott

La realtà dei fatti però si mostrava più complessa di quanto lo stesso Mott volesse disegnarla: entrando più strettamente in contatto con soggetti colpiti da granata e invalidi provenienti dal fronte francese alcuni dei quali definiti Shell Shock, si rese conto di quanto la componente psichica e del trauma fosse presente nel disturbo. Dovette così tornare sui suoi passi e riconobbe sempre di più il ruolo del “trauma psichico” all’interno del quadro di Shell Shock, ipotizzando come fosse effettivamente possibile per un militare continuamente sotto stress, crollare in una perdita di sensi improvvisa di fronte ad una esplosione avvenuta in sua prossimità. A questo aggiungeva poi come ci fosse una certa predisposizione una sorta di vulnerabilità intrinseca presente in taluni individui, che rendeva questi particolarmente soggetti al rischio di Shell Shock, definendo quindi la causa principe quella di una certa “tendenza innata o acquisita all’emotività nella genesi della psiconevrosi di guerra”. 

A fare eco a questa idea era lo stesso Myers che nel frattempo aveva cominciato a valutare più profondamente le cause del “suo” Shell Shock. Myers sosteneva che la spiegazione era di natura psicologica: va detto che differentemente da Mott aveva avuto sin da subito a che fare con gli orrori della guerra lavorando nelle retrovie del fronte in Francia in veste di psicologo, tutt’altro scenario rispetto a quello dei placidi corridoi del laboratorio di Mott. L’associazione che da subito aveva fatto era col più noto isterismo, oggi parzialmente correlabile al disturbo da conversione, quello che negli anni 70’ dell’Ottocento era stato reso celebre da Charcot, presso il “Le Salpetriere” Parigi: in sintesi un’inconscia simulazione che determinava sintomi funzionali come perdita temporanea totale o parziale dell’udito o la vista e della coscienza, tic, incapacità di gestione degli impulsi e dei movimenti, tremori e sintomi tali da garantire la dissociazione dal corpo durante l’esperienza traumatica del fronte.

La nuova sindrome tra gli eserciti europei

Tra le truppe però serpeggiava la nuova scoperta di questa sindrome che aveva guadagnato credibilità perché si presentava come una malattia organica che poteva sovrastare la disciplina (che lasciava poco spazio ad emotività e fragilità) che invece era imposta al fronte, garantendo loro una possibile via di ritorno in patria ad una sopravvivenza tranquilla. Si fece largo allora l’ipotesi di Smith e Pear che definiva lo Shell Shock “Un titolo (…) per impedire ad un uomo di svolgere i suoi doveri militari”, definendo quindi per primo il fattore sociale, piuttosto che traumatica o fisica: inutile a dirsi che per la Commissione di inchiesta dell’Ufficio di Guerra fu questa la teoria di riferimento nel 1920 a conflitto in realtà ormai concluso, proprio per evitare esosi esborsi in pensioni militari. Le contromosse però vennero prese sin da subito, seguendo le teorie di un altro psichiatra Holmes che definiva come l’unica soluzione allo “Shellshock” fosse l’uso della disciplina e il reintegro. Sulla base di questo alla fine del 1915 il Consiglio dell’Esercito impose di fronte alla presenza di sintomi nervosi o mentali che si etichettasse il disturbo in “Shellshock W” se il disturbo fosse originato da una causa organica (bombe, proiettili, traumi ecc.) o “Shellshock S” quello ad origine ignota, ma non organica: mentre nel primo caso si garantiva la pensione militare, nel caso della forma “S” si richiedeva semplicemente il reintegro.

Il moltiplicarsi dei casi

Nel 1916 e 1917 ci fu un moltiplicarsi di casi, probabilmente dovuto alla situazione sul terreno, in particolare con la Battaglia della Somme e l’inasprirsi del conflitto, portando il numero di sospetti “shock da granata” registrati negli ospedali da campo a svariate migliaia. Per ovviare alle richieste dal fronte del rapido reintegro di uomini, con l’obbiettivo di ottenere una rapida valutazione dei casi, si impostò una sorta di “Triage ad hoc” nel 1917, centri di trattamento rapido dove il paziente, inizialmente etichettato molto sbrigativamente “NYDN” (Not Yet Diagnosed Nervous”), finiva per essere poi definito “S” o “W”.  La simulazione di malattia era un problema affrontato in genere dai medici militari e gli stessi, di fronte alla venuta dello “Shell Shock” non di rado si mostravano prevenuti: l’esagerazione dei sintomi o la creazione degli stessi era spesso volta allo sfuggire ai doveri del fronte e questo garantiva ai medici l’uso anche di tecniche brutali come la faradizzazione, per convincere, con le buone o con le meno buone, di tornare al fronte e smettere di dissimulare, col rischio di finire considerati ammutinati e quindi al plotone d’esecuzione. La linea di confine tra le due condizioni era estremamente labile e allora non esistevano forme che potessero permettere di discriminare l’una dall’altra e questo fece sì che spesso chi fosse malato veniva trattato da ammutinato.

Una teoria incompresa

Le cause dello Shell shock non furono in realtà mai comprese allora, finendo per venire completamente “offuscato” come disturbo alla vigilia del secondo conflitto mondiale e ancora oggi liquidare lo “Shell Shock” ad una semplice manifestazione contestualizzata di PTSD, disturbo post traumatico da stress, rischia di andare a banalizzare una condizione clinica che deve essere necessariamente integrata e compresa sia nel contesto storico in cui si è originata e sviluppata, quello del primo conflitto mondiale, sia nel percorso di sviluppo che la psichiatria stava compiendo nel vecchio continente da ormai più di mezzo secolo e che, per la prima volta, si trovava a gestire una condizione umana nuova.

Federico Allegri

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