Trent’anni fa, l’inchiesta che mise fine alla lunga storia della Prima Repubblica.
«Una volta negli Stati Uniti, mentre visitavo il carcere federale di Butner nel North Carolina, chiesi al direttore per che tipo di reati i detenuti fossero stati condannati. Dopo avermi detto che circa la metà aveva riportato condanne per traffico di droga federale e l’altra metà per reati dei colletti bianchi, quanto a questi ultimi, specificò: prevalentemente per evasione fiscale. Alla mia espressione di sorpresa mi disse che costoro avevano mentito al popolo americano. In Italia quasi a nessuno viene in mente che gli evasori fiscali hanno mentito al popolo italiano. Si pensa, al più, che abbiano mentito allo Stato, dimenticandosi che questo non è altro che l’organizzazione di un popolo su un territorio.» Tra gli argomenti oggetto della polarizzazione politico-sociale degli ultimi anni rientra di buon grado la faccenda di Mani Pulite. Scoppiata il 17 febbraio del 1992 in seguito all’arresto di Mario Chiesa, direttore della casa di cura milanese Pio Albergo Trivulzio ed esponente del Partito Socialista italiano, Tangentopoli fu fatale per le sorti repubblicane del paese.
L’arresto di Mario Chiesa
L’arresto di Chiesa, sia chiaro, fu uno dei tanti e per questo non preludeva allo tsunami che si scatenò dopo: egli fu arrestato in flagranza di concussione ai danni di Luca Magni, titolare di un’impresa di pulizie, che, alla richiesta di Chiesa di essere pagato, si diresse alla Procura di Milano. Lì, incontrò Antonio Di Pietro, che gli suggerì di pagare dopo che lui e il capitano dei carabinieri Roberto Zuliani avrebbero firmato le banconote e annotato i numeri di serie. Magni fu dotato di microspia, si diresse al Trivulzio con 7 milioni di lire dei 14 richiesti da Chiesa e, quando il socialista afferrò la valigetta, Di Pietro e i carabinieri entrarono, cogliendolo “con le mani nella marmellata”. In quel momento, l’equilibrio che aveva tenuto insieme il sistema crollò: evidentemente, i tempi erano maturi.
Il 23 marzo 1992, Mario Chiesa cominciò a confessare le altre tangenti che aveva preso, chiamando in correità i primi politici e i primi imprenditori. Secondo la teoria del piano inclinato, con sempre maggior rapidità, tutta la classe dirigente italiana, chi più chi meno, venne braccata dalle inchieste. La citazione posta all’inizio di questo articolo è tratta da L’occasione mancata: Mani Pulite trent’anni dopo scritto da uno dei protagonisti di quella stagione: Piercamillo Davigo.
Il ruolo di Davigo
Magistrato da poco in pensione e figura altamente divisiva (come va di moda dire di questi tempi), egli fu associato nelle indagini a Di Pietro quando ci si rese conto che l’onda su cui surfare era inaffrontabile per un solo individuo: «In quanto a me, seguivo tutto sommato a distanza il lavoro dei miei colleghi. Nel maggio 1992 dovevo consumare settimane di ferie arretrate e mi recai a salutare il procuratore della Repubblica aggiunto Gerardo D’Ambrosio prima di lasciare l’ufficio. D’Ambrosio mi disse che lui e il procuratore Francesco Saverio Borrelli avevano pensato di coassegnarmi il procedimento in carico a Di Pietro e Colombo e mi diede una pila di verbali di interrogatorio, invitandomi a leggerli durante le ferie. La notizia non mi entusiasmò per niente, e non solo perché non avrei potuto dedicarmi, nei giorni a venire, alla lettura di qualche libro! All’epoca mi consideravo un sostituto procuratore già anziano e stavo valutando di cambiare ufficio». In poco tempo, insomma, si era creato il pool: Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Francesco Greco e Paolo Ielo.
La corruzione
All’interno del libro, Davigo ci parla innanzitutto della struttura definita e consolidata della corruzione nel capoluogo lombardo: «La sentenza di primo grado indicò che il sistema prevedeva, per gli appalti relativi a costruzioni, il pagamento da parte delle imprese di tangenti nella misura del 3-4% e per i lavori di impiantistica addirittura del 13,5%, così suddivisi: 37,5% al Psi, 18,75% alla Dc, 18,75% al Pci-Pds, il resto a Psdi e Pri. Insomma, ce n’era per tutti». Altro tema affrontato nel racconto è la reazione della politica. È noto, infatti, che, se in un primo momento l’indignazione popolare non poteva essere ignorata dalla classe dirigente (tanto che Bettino Craxi pronunciò il celebre discorso alla Camera dei deputati il 3 luglio 1992), già in un secondo tempo il tentativo fu di rallentare e ostacolare le inchieste: «Fra i vari tentativi di ostacolare le indagini, uno dei primi fu l’approvazione, il 5 marzo 1993, da parte del governo Amato (su proposta del ministro di Grazia e Giustizia Conso) di un decreto-legge che prevedeva la depenalizzazione del reato di finanziamento illecito, sostituendolo con un reato amministrativo. Affidare la repressione di tali comportamenti all’autorità amministrativa (nella specie ai prefetti) era ridicolo: la dipendenza di tale autorità dall’esecutivo è totale, ed era evidente che la politica disponeva di tutti gli strumenti per impedire efficaci interventi in questa materia.
Il presidente della Repubblica, comunque, rifiutò di firmare la proposta di decreto-legge, che non fu emanato». Passando poi dalla quasi incomprensibile vicenda Eni-Enel-Montedison-Enimont al famoso “lodo Mondadori”, Davigo dedica una parte del libro (e come potrebbe evitarlo) al coinvolgimento di Silvio Berlusconi. Dal famoso avviso di garanzia pubblicato sul Corriere della Sera ai tentativi plurimi di modificare il Codice penale a sua immagine e somiglianza. Il lettore, anche senza conoscere tutti i precetti giuridici, si fa una chiara idea della lotta senza esclusione di colpi avvenuta tra politica e magistratura. Quella di Davigo rimane una testimonianza da leggere e studiare, perché ricca di dettagli e riferimenti riguardanti un momento storico imprescindibile per poter seguire le vicende attuali.