La guerra civile in Myanmar: storia di un conflitto eterno

La sanguinosa guerra civile attualmente in corso nello stato del Myanmar (precedentemente noto come Birmania) rappresenta il conflitto più longevo attualmente in essere. Dal 1948 ad oggi il mondo ha attraversato cambiamenti economici e sociali radicali, ma in un mondo segnato da un continuo cambiamento, il conflitto birmano ha rappresentato una costante. La condizione di costante instabilità in cui il paese vive ormai dal secondo conflitto mondiale è stata generata dall’intersezione tra profonde tensioni etniche e una generale tendenza dei vari governi birmani ad assumere tendenze autoritarie. A dispetto della sua lunghissima durata, il conflitto birmano ha spesso ricevuto ben poca attenzione, elemento che ha contribuito ad impedire che le atrocità commesse durante il suo svolgimento divenissero di pubblico dominio. Di recente, l’ennesimo tentativo da parte delle forze armate del paese di mantenere il monopolio del potere politico ha scatenato una devastante guerra civile su vasta scala, tra le più sanguinose attualmente in corso.

Le radici del conflitto

Le radici del conflitto birmano affondano nell’era pre coloniale del paese, segnata da una forte supremazia dei Bamar (o birmani) su altri gruppi etnici nella regione. Tale predominio risultava altamente sgradito ad alcune minoranze etniche, quali i Karen, presenti al confine con la Thailandia e i Mon. A dispetto della chiara supremazia dei Bamar la Birmania precoloniale, risulta caratterizzata da un sistema di governo quasi feudale segnato da un’enorme importanza dei legami personali, nonché da una concezione dell’identità etnica ancora non pienamente maturata, non vedeva ancora nell’etnia la principale fonte di supremazia politica. Tale stato di cose si sarebbe realizzato solo con la conquista del paese da parte dei britannici.

Nel 1824 le forze britanniche e l’esercito dell’Impero birmano ingaggiarono diversi scontri di confine lungo Cachar e Jaintia. Tali scaramucce culminarono nella cosiddetta Prima Guerra Anglo Birmana, la quale terminò dopo due anni con una netta vittoria britannica, che sancì l’avvio del processo di completa occupazione della Birmania da parte di Londra, processo concluso nel 1885. Durante il conflitto i britannici si servirono abilmente della divisione etnica dell’Impero birmano, sfruttando in particolare il forte risentimento dei Karen, parzialmente cristianizzati da diverse missioni condotte all’inizio del secolo, verso i Bamar, nonché i simili sentimenti di Kachin e Mon. A seguito della conquista britannica la Birmania non venne organizzata in una colonia autonoma, ma divenne un’appendice de facto del Raj Britannico (meglio noto come India Britannica). Al fine di prevenire lo scoppio di possibili rivolte, i britannici impiegarono la cosiddetta tecnica del divide et impera, favorendo ulteriormente le divisioni etniche nel paese. Il governo di Londra garantì infatti un trattamento privilegiato alle minoranze Karen e Kachin, favorendo in particolare il loro reclutamento nelle forze armate coloniali. Tale politica sancì la definitiva ascesa dell’identità etnica quale fonte di potere politico e di organizzazione sociale, acuendo le tensioni presenti nel paese.

Il profondo odio etnico instauratosi durante il periodo coloniale britannico finì per influenzare il nascente movimento nazionalista birmano, il quale iniziò a considerare le minoranze etniche fedeli a Londra come delle vere e proprie forze collaborazioniste, votandosi alla formazione di uno stato dove i Bamar avrebbero esercitato un ruolo di assoluta preminenza. Durante il secondo conflitto mondiale, il Giappone emulò le tecniche già impiegate dai britannici sfruttando le divisioni etniche del paese per perseguire i propri obbiettivi espansionistici. I nipponici fornirono addestramento militare ai cosiddetti Trenta Compagni, un gruppo di intellettuali anticolonialisti che una volta rientrati nel paese istituirono l’Esercito per l’Indipendenza della Birmania (BIA), avviando contestualmente una massiccia campagna di reclutamento. Supportati dalle forze indipendentiste locali, i Giapponesi riuscirono nel 1942 a conquistare gran parte del paese, istituendo lo Stato della Birmania, un’amministrazione nominalmente indipendente ma de facto dominata dalle forze di Tokyo. Durante il periodo di occupazione i giapponesi invertirono la politica britannica, favorendo il reclutamento su vasta scala dei Bamar nelle forze armate a scapito delle minoranze etniche. Ormai detentrici del potere politico, le forze birmane posero in essere diversi massacri a danno delle minoranze Karen e Kachin. Le azioni giapponesi cristallizzarono definitivamente le divisioni etniche nel paese, portando diverse minoranze ad ipotizzare l’idea di una secessione dalla Birmania e la formazione di un proprio stato etnico. Di fronte alle costanti sconfitte nipponiche e alle costanti ingerenze di Tokyo negli affari interni birmani, le forze nazionaliste del paese, aiutate dalle minoranze etniche e dai comunisti, lanciarono nel 1945 un’insurrezione antigiapponese, schierandosi dalla parte degli alleati e favorendo la liberazione del paese.

La prima fase del conflitto

Al termine del conflitto, al netto dell’assoluto dominio politico della Lega Popolare di Liberazione Anti Fascista (AFPFL)sulla maggioranza Bamar, espresso dal clamoroso successo elettorale ottenuto alle elezioni del 1947, risultava ormai chiaro come le tensioni etniche nel paese sarebbero potute esplodere in una vera e propria guerra civile. In particolare, i Karen già nel febbraio 1947 avevano formato un proprio partito politico, l’Unione Nazionale Karen (KNU). Nel tentativo di scongiurare un conflitto, Aung San, leader della AFPFL, siglò un accordo con le minoranze Shan, Kachin e Chin, promettendo piena autonomia entro i propri confini regionali con l’opzione di secedere dalla Birmania dopo un periodo di dieci anni. L’assassinio di Aung San privò il paese dell’unica figura in grado di pervenire ad una sintesi tra le varie etnie del paese, determinando l’insorgere del conflitto. I primi a lanciare un’insurrezione nel 1948 furono i comunisti, esclusi dal potere dai socialisti moderati e i Karen, i quali avviarono la propria lunghissima guerriglia contro il governo l’anno successivo.

Il periodo compreso tra il 1948 e il 1962 ha visto una costante crescita dell’insurrezione alla quale si aggiunsero gradualmente milizie Kachin, Shan e Chin, scontente della mancata federalizzazione del paese. I pesanti conflitti etnici nel paese si incrociarono con la contemporanea presenza di alcuni soldati sbandati del Kuomintang cinese, sbaragliati da una campagna congiunta sino birmana nel 1961. Il progressivo deteriorarsi della situazione economica, politica e sociale dello stato generata dai violenti conflitti etnici, dalla crescente corruzione e dalla progressiva disintegrazione dell’AFPFL creò le condizioni per l’esecuzione di un colpo di stato da parte del Ganerale Ne Win, il quale instaurò una lunghissima dittatura militare di stampo socialista. Di fronte al costante deterioramento della situazione economica del paese, nel 1988 diversi studenti avviarono un movimento di protesta culminato con la cosiddetta Rivolta delle Quattro Otto. La rivolta comportò le dimissioni del Generale Ne Win, ma nel settembre dello stesso anno una nuova giunta militare prese il potere, avviando però un dialogo con le forze d’opposizione guidate a Aung Sang Suu Kyi, figlia di Aung Sang. L’anno successivo la giunta per dissociarsi definitivamente dal passato coloniale britannico cambiò la denominazione del paese in Myanmar. Le trattative comportarono la convocazione di libere elezioni nel 1990, le quali vennero vinte dalla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung Sang Suu Kyi; tuttavia, i militari non riconobbero i risultati ed eseguirono un ennesimo colpo di stato riprendendo il potere. A partire dal 1989 le forze armate birmane (Tatmadaw) riuscirono ad indebolire significativamente le forze ribelli, il crollo del Muro di Berlino e il venir meno del sostegno cinese determinarono la dissoluzione delle forze comuniste e le campagne militari condotte contro le milizie etniche ebbero grande successo, culminando con la caduta di Manerplaw, roccaforte delle forze Karen.

A dispetto dei successi riportati negli anni Novanta, i militari non riuscirono a sopprimere i vari movimenti etnici di guerriglia, al contempo le cattive condizioni economiche del paese, peggiorate dalla corruzione e dalle sanzioni statunitensi e la generale impopolarità della giunta militare spinsero quest’ultima ad avviare un percorso di riforme sotto la guida del Generale Thein Sein. Nel 2008 venne approvata una nuova costituzione per il paese e nel 2011 Sein incontrò Aung San Suu Kyi, agli arresti domiciliari dal 1990. Nel 2015 vennero convocate le prime libere elezioni dopo 25 anni, nettamente vinte dalla Lega per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, contestualmente il governo birmano siglò un cessate il fuoco nazionale con la maggior parte dei gruppi ribelli. Il mandato di Aung San Suu Kyi ha visto un generale miglioramento della situazione nel paese, sebbene il nuovo governo democratico sia stato costretto ad una difficile convivenza con le forze amate, ancora dotate di un’enorme influenza politica, in virtù del controllo di un quarto dei seggi parlamentari e di un grande potere politico. Ciò si è tradotto in una continuazione delle persecuzioni poste in atto dall’esercito a danno della minoranza musulmana Rohingya.

La Guerra Civile

A seguito delle elezioni del 2020 che hanno visto una forte riconferma della Lega Nazionale per la Democrazia, si è aperta per la prima volta la possibilità di ridurre significativamente il ruolo dei militari nella vita politica del paese in virtù dell’ormai prossimo pensionamento per limiti di età del Generale Min Aung Hlaing, capo delle forze armate del paese. Di fronte alla possibilità di essere escluso dal potere, il Generale ha eseguito un ennesimo colpo di stato con il sostegno delle élite militari contrarie alle riforme. Il golpe ha generato vastissime proteste popolari, nonché il crollo dell’accordo nazionale sul cessate il fuoco siglato nel 2015. In risposta diversi politici fedeli ad Aung San Suu Kyi hanno formato un governo di unità nazionale denominato NGU e attivato una milizia denominata Forza di Difesa Popolare. Il Governo di Unità Nazionale si è distinto sin da subito per il proprio carattere inclusivo, risultando presieduto dal Presidente Duwa Lashi La, di etnia Kachin e dal Premier Mahn Win Khaing Than, di etnia Karen. L’inclusività del NGU ha consentito a quest’ultimo di formare una partnership con le formazioni etniche riunite nel Consiglio Consultivo di Unità Nazionale, partnership che ha consentito la stesura della Federal Democratic Charter, documento che sintetizza l’idea di un Myanmar democratico e federale, creando per la prima volta nel paese un fronte anti governativo inclusivo in grado di affrontare la nascente guerra civile.

Svolgimento del conflitto

Sin dall’inizio del conflitto i due opposti schieramenti hanno impostato due strategie diametralmente opposte, specchio dei loro rispettivi arsenali. Il Tatmadaw ha infatti cercato di sfruttare la propria superiorità numerica e la maggiore disponibilità di armamenti per mantenere il controllo delle aree economicamente più rilevanti, conducendo contestualmente possenti offensive convenzionali volte a distruggere le roccaforti dei ribelli situate in aree rurali. I ribelli dal canto loro hanno adottato una classica strategia da guerriglia maoista. Durante la prima fase essi anno rotto il fronte, affidandosi in gran parte ad agguati a danno dell’esercito regolare volti a logorare quest’ultimo. Una volta raggiunto un elevato livello di logoramento, essi hanno posto in essere diverse azioni offensive volte a ricostruire un fronte simmetrico ottenendo il controllo delle aree rurali e delle aree urbane del paese maggiormente prossime alle loro basi operative. Nei fatti la strategia delle forze ribelli si è rivelata altamente funzionale, anche grazie alle condizioni fortemente favorevoli nel paese. L’impopolarità della giunta militare ha infatti ridotto significativamente il numero di reclute per l’esercito, aumentando contestualmente il numero di reclute per i ribelli. Al contempo, data l’esiguità delle proprie forze la giunta è stata costretta a mantenere diverse migliaia di truppe in riserva per prevenire massicci movimenti di protesta nelle città del paese, riducendo ulteriormente la propria capacità combattiva

Un punto di svolta è stato rappresentato dal lancio nell’ottobre del 2023 dell’operazione “1027” da parte della “Three Broderhood Alliance” (TBA), un’alleanza costituita da tre milizie etniche, l’Arakan Army, il Myanmar National Democratic Alliance Army e il Ta’ang National Liberation Army. L’operazione che ha interessato il nord-est del paese ha visto il massiccio impiego da parte delle forze ribelli di droni commerciali carichi di esplosivo come strumento d’artiglieria, sulla falsariga delle forze ucraine durante l’invasione russa, nonché un’elevata coordinazione tra le forze in campo. L’offensiva ha visto la presa di ben 36 città da parte della TBA, inclusa la città di Laukkai, capitale della Zona Autoamministrata del Kokang. A tale operazione hanno fatto seguito una serie di offensive a valanga dei ribelli concentrata in particolare nelle regioni di frontiera del paese. Lo Arakan Army ha sferrato un possente attacco nel nord-ovest del paese, al confine con l’India, risultato nella presa di numerosi centri urbani quali la città di Mrauk U e il parziale isolamento di Sittwe, capitale dello stato del Rakhine. Le milizie Karenni nello stato del Kayah, confinante con la Thailandia hanno invece avviato l’operazione 1107, la quale ha determinato la liberazione di buona parte del territorio dello stato, gettando le basi per la successiva operazione 1111, risultata nell’isolamento della città di Loikaw, capitale dello stato, in buona parte finita nelle mani delle forze ribelli. Infine, nel marzo 2024 le forze Karen attive nel sud del paese hanno preso il controllo della città di Papun.

Lo stato del conflitto

Le pesanti sconfitte militari subite dalle forze armate del Myanmar hanno determinato l’insorgere della più grave minaccia per la giunta al potere dai tempi della Rivolta 8888. I ribelli controllano la maggior parte del territorio del paese e si sono impossessati di importanti città di frontiera, isolando ulteriormente il regime. Tuttavia, la giunta militare rimane ben lontana dall’essere sconfitta. Il Tatmadaw rimane infatti una forza militare numerosa, ben addestrata e ben equipaggiata. Buona parte delle città controllate dagli insorti, per quanto strategicamente importanti, risultano relativamente isolate e ben lontane dalle metropoli di Yangon e Naypyidaw. Un’eventuale operazione da parte dei ribelli rivolta a liberare tali città richiederebbe necessariamente un’offensiva di tipo convenzionale richiedente molte più risorse rispetto a quelle allocate per la liberazione di Laukkai e all’assedio di Loikaw. In primo luogo, è possibile che i ribelli non dispongano della capacità combattiva atta al conseguimento di un simile risultato. In secondo luogo, tale tipologia di attacco esporrebbe i ribelli al massiccio impiego da parte della giunta della propria aviazione e della propria artiglieria.

In secondo luogo, vi è un fondamentale elemento da considerare, il tempo. Il tempo ha storicamente rappresentato una delle risorse maggiormente decisive per determinare l’esito di un conflitto. La possente offensiva scatenata dal Giappone contro la Cina nel 1937 non riuscì ad eliminare completamente il governo cinese, il quale conservato il controllo delle province occidentali riuscì a riarmarsi e a respingere progressivamente il nemico nipponico mediante una lunga e devastante guerra di logoramento. Nel presente caso il tempo potrebbe essere dalla parte della giunta. Il proseguire della guerra civile potrebbe infatti determinare la necessità da parte della popolazione di sacrifici che i cittadini potrebbero non essere disposti a sopportare, preferendo “sopravvivere” sotto un regime tirannico piuttosto che proseguire una devastante guerra senza via d’uscita. Contestualmente il regime militare gode di un supporto internazionale de facto nettamente superiore rispetto a quello dei ribelli. La giunta militare gode infatti dell’aperto sostegno della Federazione Russa, la quale svolge un ruolo essenziale nel sostenere l’aviazione di Nypyidaw, una delle principali armi nelle mani del governo. Al contempo a dispetto del suo tacito appoggio all’operazione 1027, la Cina continua di fatto a sostenere la giunta al potere, assieme all’India, timorosa di un eccessivo incremento dell’influenza dell’ingombrante vicino sul Myanmar. In ultima analisi, la macchina militare del Tatmadaw rimane di fatto alimentata da una vasta rete di aziende in tutto il mondo che forniscono la componentistica adeguata a favorirne il funzionamento. Viceversa, le forze antigovernative non godono di un sostegno esterno effettivo. La strategia adottata dalle nazioni occidentali fondata sull’imposizione di sanzioni economiche a danno del regime si è rivelata in gran parte inefficace. Il Burma Act approvato dal Congresso nel 2022 ha introdotto alla semplice fornitura ai ribelli di assistenza militare non letale. Allo stato attuale non vi sono attori all’interno della comunità internazionale che stiano fornendo un effettivo supporto alle forze antigovernative, il che rende largamente improbabile l’acquisizione da part di queste ultime delle capacità militari atte a prendere il controllo delle metropoli nel sud del paese.

In ultima analisi, i ribelli rimangono afflitti da un cronico problema, l’assenza di unità. A dispetto del tentativo da parte del governo di unità nazionale di coinvolgere le milizie etniche in un framework volto a formare un vero e proprio fronte unito, molte di esse continuano ad agire in modo indipendente. Buona parte delle milizie autrici degli audaci colpi di mano a danno delle forze governative tra il 2023 e il 2024 non sono infatti membri del consiglio consultivo di unità nazionale istituiti dal NGU. In virtù di ciò le forze ribelli non solo risentono di scarsa coordinazione, ma sono anche esposte al rischio di un possibile tentativo da parte del governo di fomentare divisioni tra di esse. Al contempo preme però sottolineare come la giunta militare risulti afflitta da una grave carenza di manodopera. La guerra ha provocato infatti non solo perdite estremamente rilevanti, ma anche numerose diserzioni tra le fila governative. Il recente tentativo da parte della giunta di avviare una coscrizione ha determinato la fuga di numerosi giovani, testimoniando la scarsa affezione della popolazione per il regime.

I possibili scenari

Scenario “siriano”

Forse attualmente lo scenario avente maggiori probabilità di verificarsi. La giunta militare potrebbe beneficiare della scarsa coordinazione tra le forze ribelli e della loro incapacità di congiurare le città principali per pervenire ad uno stallo militare che divida de facto il paese in una lunga serie di zone autonome preservando però il controllo da parte del regime delle aree economicamente più importanti. Ciò consentirebbe ai generali di conservare de facto il potere, evitando una disastrosa caduta.

Scenario “Taiping”

Il secondo scenario attiene ad un’eventuale riconquista del territorio del paese da parte del regime, similmente a quanto avvenne in Cina durante la Rivolta dei Taiping, la quale a dispetto della conquista da parte dei ribelli della maggior parte del territorio nazionale, terminò in ultima analisi con la restaurazione della Dinastia Quing. Tuttavia, la vittoria dei Quing derivò dal conseguimento delle capacità militari atte a contrastare i Taiping grazie alle innovazioni di Zeng Guofan e della sua Armata Xian. Nel presente caso è improbabile che il regime metta in campo una massa combattente adeguata a tale scopo, tanto sotto il profilo numerico, quanto in relazione ai mezzi. La produzione interna del paese non può in alcun modo rispondere a tali esigenze e il supporto internazionale per la giunta per quanto solido risulta parimenti inadeguato e non vi sono segnali di un suo incremento. La causa più probabile nel determinare tale scenario potrebbe essere solo un crollo dell’alleanza tra le forze ribelli, tuttavia, il regime dovrebbe investire fortemente per ottenere l’appoggio di almeno una parte di esse.

Scenario “etiopico”

L’ultimo scenario risulta essere quello etiopico, ossia l’abbattimento del regime da parte di un’eterogenea coalizione di milizie etniche, esattamente come avvenuto in Etiopia nel 1991. Tuttavia, la vittoria delle forze antigovernative in Etiopia derivò dall’intersezione tra la formazione di un meccanismo in grado di coordinarne gli sforzi, l’incremento delle proprie capacità combattive e la fine del sostegno internazionale per il governo. Allo stato attuale nessuno dei citati fattori risulta presente nell’ambito del conflitto birmano, né tantomeno la loro realizzazione pare possibile. Le nazioni ostili alla giunta militare non paiono infatti decise a supportare le forze antigovernative, le quali non dispongono delle capacità produttive per formare una forza militare atta ad ottenere una vittoria completa. Contemporaneamente gli sponsor internazionali della giunta non paiono per nulla intenzionati a porre fine al sostegno militare per quest’ultima. Allo stato attuale tale scenario potrebbe verificarsi solo in caso di un collasso interno del regime.

La guerra dimenticata

La guerra civile nel Myanmar rappresenta uno dei conflitti più lunghi nella storia umana. Le radici di questa sanguinosa guerra affondano in problemi mai risolti risalenti ormai a secoli fa, i quali si sono incrociati con la forte tendenza delle forze armate del paese ad istituire sistemi di governo autoritari fondati su corruzione e violenza. In virtù di ciò, i generali facenti parte della giunta militare al potere hanno deciso, di fronte alla sconfitta elettorale del 2020 hanno deciso di scatenare una guerra civile avente per loro carattere “esistenziale”. Gli atti commessi durante i loro anni al potere rendono infatti impossibile una loro reintegrazione in un sistema nel quale essi non detengono il potere, in quanto essi finirebbero inevitabilmente per pagarne le conseguenze legali. La complessità del conflitto si riflette anche sulla situazione sul campo, segnata tanto dall’assenza di due schieramenti effettivi, quanto dall’incapacità di ognuno di essi di ottenere una vittoria militare completa. Al contempo, la guerra civile nel Myanmar risulta essere un’ulteriore dimostrazione della transizione del sistema internazionale verso una condizione di unipolarismo messa sempre più in discussione. Gli anni Novanta, segnati dalla presenza di un sistema interazione unipolare non messo in discussione, hanno infatti visto una forte attenzione della comunità internazionale nella gestione di conflitti nel “Terzo Mondo”. Viceversa, il presente ritorno alla competizione tra potenze ha determinato la necessità per queste ultime di allocare le proprie risorse nelle aree maggiormente strategiche in accordo con i loro interessi. Il devastante conflitto nella regione del Tigray e la sanguinosa guerra civile nel Myanmar rappresentano il sintomo di una comunità internazionale profondamente disunita, dove le principali potenze globali risultano poco interessate alla risoluzione di conflitti percepiti come secondari.

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