La guerra d’Abissinia mussoliniana raccontata nel romanzo di uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento.
Tra le rovine di Milano devastata dalla guerra, due uomini, uno bassino e un altro bello tarchiato, passeggiavano in silenzio. Ad un certo punto, il primo ruppe gli indugi e disse: «Flaiano, me lo scrive un romanzo entro marzo?». Era Leo Longanesi, che con la sua solita estemporaneità proponeva a Ennio Flaiano di scrivere un libro come noi proponiamo ad un amico di andare a prendere un caffè. L’autore si mise all’opera, forse più per la paura di essere fulminato vivo dal suo editore che per il desiderio di scrivere un romanzo, e partorì Tempo di Uccidere. Poi, Leo lo presentò senza dire niente allo scrittore alla prima edizione del Premio Strega, dove vinse in totale controtendenza con le tematiche del tempo. Alla fine della Seconda guerra mondiale, infatti, le librerie e le sale cinematografiche pullulavano di opere neorealiste.
L’incontro con Marian
Flaiano invece tirò fuori dal cappello questo racconto, un unicum nella sua produzione letteraria, perché di opere così lunghe col cavolo che ne scriverà altre, confermando il personaggio di scrittore pigro che lui stesso si era appioppato. Siamo in Etiopia, durante la guerra coloniale del 1936 e il protagonista, un ufficiale, smarritosi nella foresta, si imbatte in una bellissima donna che si rinfresca sulla riva di un fiume. L’uomo si avvicina e lei, che indossa un turbante bianco, prima si schernisce, poi si lascia andare: i due fanno l’amore. Nei giorni seguenti, il protagonista scopre che, in Etiopia, le donne con la lebbra sono solite indossare un turbante bianco per avvertire chi le circonda. Con questa rivelazione, l’ufficiale esce di senno. Da qui il racconto degli avvenimenti si fa sempre più frammentato a discapito della descrizione psicologica di angoscia: deliri, sudore, caldo, sogni, ricordi, sopprimono tutta la lucidità dell’uomo fino a farlo impazzire. Il ricordo delle due donne della sua vita, cioè la moglie e Mariam (quella del fiume), lo strazia nell’animo, convinto di non poter mai più vedere la prima a causa della seconda. La follia lo porta ad allontanarsi sempre più dalla vita militare, a tentare più volte di rimpatriare con metodi più o meno clandestini, e infine a ritornare nella foresta, al piccolissimo villaggio di Mariam per adattarsi alla sua vita di lebbroso. Poi c’è il finale.
L’accoglienza
La perfetta chiusura di un romanzo nato dai capricci dell’editore più rabdomantico di tutti. Insomma, già da questi pochi frammenti di trama si comprende che Tempo di Uccidere si avvicina più alla letteratura continentale che non a quella italiana dell’epoca: in molti lo hanno avvicinato a Camus e addirittura a Sartre, lontanissimo da autori come Italo Calvino o Beppe Fenoglio. In Italia, a fargli compagnia sono i racconti di Buzzati. Tempo di Uccidere ha anche alcuni tratti di Delitto e Castigo di Dostoevskij, dove si consumano pagine e pagine nel racconto di un singolo pensiero stralunato e convulso, in grado di ossessionare il protagonista fino allo sfinimento. Anche lì si oscilla costantemente tra realtà e immaginazione, in cui il lettore, in balia del racconto non capisce se si stia parlando dell’una o dell’altra.
Effettivamente, quello inaugurato da Flaiano è sempre stato un genere romanzesco dalla vita breve in Italia, quando all’estero ha avuto più fortuna. Oltre ai sopracitati maestri della letteratura, più vicino ai giorni nostri è Emmanuel Carrére, scrittore francese divenuto famoso con I Baffi, romanzo dalla genesi praticamente banale ma che ricalca il tema de Il Tempo di Uccidere. In ogni caso, Flaiano, dopo il suo romanzo, si dedicò ad altro e per anni l’opera ha preso la polvere negli scaffali delle librerie, quasi dimenticata da tutti. Tuttavia, prendendolo in mano nel 2021, ci si cimenta in una lettura più attuale che mai.
Alessandro Randi