Quando l’Italia liberale si accorse dell’esistenza della mafia.
All’Italia di oggi viene facile associare la parola mafia al contesto criminale, alla Associazione di tipo mafioso come recita il Codice penale; ma fino a pochi anni fa la stessa esistenza di una associazione mafiosa veniva messa in dubbio, o comunque ne veniva ridimensionata l’impronta che la sua ombra proiettava sulla società civile. L’esempio più significativo di ciò è dato dallo “scontro” mediatico avvenuto tra due grandi della cultura e dell’identità italiana, quando nel gennaio 1987 Leonardo Sciascia redasse un articolo per il Corriere della Sera attaccando la figura del già noto Paolo Borsellino.
La mafia nell’economia e nella politica
Al netto di ciò il fattore mafia è un elemento centrale nella economia e nella politica prima squisitamente siciliana, poi italiana sin dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, e proprio nel contesto di passaggio del centro politico da Palermo a Roma, ovvero dal momento in cui l’isola perde quel controllo politico regionalizzato e passa in un sistema di controllo centralizzato e centralizzante, distante dalle campagne del palermitano che si inserisce il primo omicidio illustre che la mafia compì. L’omicidio Notarbartolo ha segnato uno spartiacque nella percezione dell’Italia intera rispetto a quel fenomeno di criminalità violenta che iniziava a mostrarsi all’opinione pubblica, se qualche decennio prima aveva fatto scalpore la definizione “facinorosi della classe media” nell’inchiesta Franchetti-Sonnino, ora, nel 1983 è l’omicidio del Dirigente del Banco di Sicilia, prima banca dell’Isola, che sconvolge e palesa una realtà: i facinorosi, i violenti, gli assassini non sono solo gentaglia che vive nei sobborghi del Palermitano, ma sono legati e asserviti a elementi di spicco dell’imprenditoria, dell’industria e della politica. Non si può più dire “tanto si ammazzano tra di loro”.
L’attentato e la morte
Emanuele Notarbartolo, prima sindaco di Palermo, poi dirigente del Banco, viene freddato da un killer sulla linea ferroviaria che da Termini Imerese porta a Trabia. Questo omicidio, primo fra gli “eccellenti” della mafia palermitana, dimostra quanto la società fosse impregnata di elementi criminali, al processo del 1899, svoltosi a Milano, fu condannato come mandante primo dell’omicidio il Deputato alla camera eletto già nel 1877 nel collegio di Caccamo, poi nel 1892 nel collegio di Palermo, Raffaele Palizzolo:
«Nei pubblici ritrovi, nelle vie, ovunque si diceva: la mano dev’essere stata di Palizzolo». (Testimonianza al processo di Milano)
Oltre ad essere un deputato il Palizzolo inoltre era uno dei principali societari della maggiore fra le ditte di trasporto del palermitano, ovvero la Navigazioni Generali che, dalla opera di bonifica delle finanze del Banco di Sicilia operata da Notarbartolo ne sarebbe uscita estremamente danneggiata. Il Palizzolo ci mostra cosa sia e cosa desideri essere la mafia, ieri come oggi: controllo politico, imprenditoria e finanza. Per vent’anni le catene del denaro che tenevano unite le amicizie e le relazioni del Palizzolo lo salvarono dal processo, fino a che, il Generale Pelloux, capo del governo, nel 1898 non nominò questore di Palermo Ermanno Sangiorgi che riuscì a montare un processo contro Palizzolo e la sua cerchia.
Antonio Passafiume