Gli accordi di Dayton ventisette anni dopo

Il protocollo con il quale ebbe termine la terribile guerra in Bosnia ed Erzegovina.

La storia della Jugoslavia inizia dopo la “Grande Guerra”, quando a Parigi le potenze vincitrici del conflitto decidono di creare un unico stato slavo che comprendeva Slovenia, Croazia, Serbia, Montenegro, Bosnia/Erzegovina e l’odierna Macedonia del Nord. Si trattava di una monarchia governata dalla dinastia dei Karageorgevic e che riuscì a sopravvivere sino alla seconda guerra mondiale quando il paese venne poi occupato dalle forze nazi/fasciste. Fu Tito, il leader dei comunisti slavi, a liberare il territorio dai nazisti con l’aiuto dei suoi partigiani (conosciuti non a caso come “titini”) e senza l’intervento dell’Armata Rossa, unico a riuscirci nell’ Europa centro/orientale. La Jugoslavia diventa così una Repubblica comunista governata da Tito sino all’anno della sua morte, nel mese di Aprile del 1980.

Josip Broz Tito

Il maresciallo Tito era figlio di un contadino croato e sebbene per noi Italiani sia una figura controversa in quanto ritenuto responsabile del “massacro delle foibe” e della successiva diaspora giuliano/dalmata, deve essere annoverato tra i più grandi statisti del ventesimo secolo. Riuscì infatti a tenere unito un paese multi/etnico dove abitavano musulmani, cattolici e cristiano/ortodossi grazie ad un sapiente “gioco di pesi e contrappesi”. Essendo consapevole che sloveni e croati mal sopportavano l’invadenza politica di Belgrado (capitale del paese) e della Serbia, concesse loro una ampia autonomia amministrativa e contemporaneamente distribuì le ricchezze dell’economia croata e slovena (più ricche di quella serba) nel sud del paese. Anche la provincia serba del Kosovo (abitata in prevalenza da albanesi) godette di ampia autonomia.
Ma alla morte del dittatore tutto cambia, la Jugoslavia viene contagiata dalla Perestroika di Gorbaciov e l’ideologia nazionalista torna ad affacciarsi minacciosa tanto in Croazia con l’avvento del Presidente Franjo Tudjman quanto in Serbia dove il comunista Slobodan Milosevic si converte agli ideali nazionalisti e ritorna a parlare dopo settantacinque anni di una “Grande Serbia”. La caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo nell’ Europa Orientale inducono la Slovenia e la Croazia a dichiarare nel 1991 la loro indipendenza da Belgrado. E se il governo centrale accetta senza troppe proteste la dichiarazione della Slovenia, trattandosi di un paese perlopiù mono/etnico (saranno sparati solo pochi colpi di cannone), il comportamento della Croazia pone invece molti problemi, poichè nelle regioni della Krajina e della Slavonia la minoranza serba è molto forte. Accade allora che sotto la spinta di Milosevic nascerà la repubblica serba autonoma della Krajina (comprendente anche la Slavonia) che manterrà la sua indipendenza dalla Croazia sino al 1995 (la dichiarazione di indipendenza della Macedonia sempre nel 1991, sarà invece accolta senza particolari proteste dal governo di Belgrado che aveva ben “altre gatte da pelare”).

La Bosnia/Erzegovina

Ma il problema maggiore è la Bosnia/Erzegovina dove accanto ad una maggioranza di bosniaco/musulmani (retaggio dell’antica dominazione ottomana) abita anche una numerosa minoranza serba e nella regione della Erzegovina una forte minoranza croata. E quando il presidente Alija Itzebegovic (dopo un referendum boicottato dai Serbi) dichiara l’indipendenza del paese, la guerra è inevitabile. Viene fondata la Repubblica autonoma di Serbia guidata dall’ ex psichiatra Radovan Karadzic e contemporaneamente nasce anche un’enclave autonoma croata. Sarajevo viene assediata dalle forze serbe che vogliono “cacciare” i musulmani e si rendono responsabili di una “pulizia etnica” che passerà tristemente alla storia. Questa pulizia, praticamente un genocidio in piena regola, raggiungerà il suo apice durante l’ultimo anno di guerra (siamo ormai nel 1995) con il massacro di Srebrenica, dove circa ottomila musulmani saranno sterminati e seppelliti in fosse comuni dal generale Ratko Mladic, comandante delle truppe serbe di Bosnia. L’Europa assiste impotente a un conflitto che si protrae per quattro anni (dal 1991 al 1995) e anche i tentativi delle Nazioni Unite cadono nel vuoto sino a quando, anche grazie alle pressioni americane e all’ intervento del neo/eletto presidente francese Chirac, i contendenti si riuniscono davanti ad un tavolo di pace nella città americana di Dayton.

Gli accordi

Ma siamo già nel mese di Novembre del 1995. Milosevic ha compreso che la guerra non può continuare, ora combatte da solo perchè anche i croati si sono ripresi le regioni ribelli della Krajina e della Slavonia e deve quindi cercare un accordo che sarà raggiunto sotto il patrocinio di Bil Clinton il 21 Novembre, per poi essere sottoscritto a Parigi il 14 Dicembre successivo. Tale accordo prevede che la Bosnia rimarrà uno stato sovrano ma si trasformerà in una federazione costituita da una Repubblica serba che occuperà il 49% del territorio e da una federazione musulmano/croata che si stanzierà nel restante 51% del paese (ai bosniaci/musulmani spetterà il 26% e ai croati il 25%). La presidenza della nazione sarà costituita da un organo collegiale composto da un musulmano, un serbo e un croato che a turno, ogni otto mesi, occuperanno la carica di presidente (una sorta di “primus inter pares”).
Nasce così la prima “democrazia etnica” della storia che riesce ad evitare la guerra ma non garantisce purtroppo una vera pace. Anche oggi, venticinque anni dopo gli accordi di Dayton, il governo della Bosnia/Erzegovina è instabile e la Repubblica serba non perde occasione per manifestare la sua volontà di riunirsi “alla madre patria”. Inoltre la presenza dei Serbi nell’ esecutivo impedisce al governo di Sarajevo di negoziare il suo ingresso nell’ Unione Europea e nella Nato. Questa è la Bosnia nell’ anno 2020, una polveriera pronta ad esplodere ancora, un conflitto prossimo a “scongelarsi” e che minaccia la pace europea per l’ennesima volta.

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