Ritratto di uno dei più grandi giornalisti e scrittori italiani del Novecento.
Nella considerazione del fatto che Dino Buzzati sia stato tanto un immenso scrittore quanto un eccezionale giornalista, non è possibile non premettere a qualunque altra valutazione lo sconsolante paragone tra l’intellettuale bellunese e i suoi eredi odierni. Noi non siamo più abituati allo standard qualitativo cui appartenevano Buzzati e tanti suoi contemporanei e questo, in qualche modo, ci impedisce di coglierne appieno il valore. L’idea che uno qualunque dei giornalisti che, quotidianamente, fanno risuonare il paese del loro vaniloquio, delle loro minime beghe, dei loro evanescenti pensierini, possa dedicarsi a una narrativa densa, formidabile, originalissima, come quella di Buzzati, è già, di per sé, improponibile. Pensare, poi, che uno degli scrittorelli oggi in voga, uno dei narratori da novanta pagine a romanzetto, tutti tronfi di scrittura creativa e di storytelling, si possa dedicare al giornalismo di qualità, creando un vero e proprio ponte tra le due arti, quella del raccontare e quella del narrare, sfocia addirittura nel blasfemo.
Un’arte che non esiste più
Uno scrittore come Buzzati, oggi, semplicemente non potrebbe esistere. E il suo approccio alla cronaca, nutrito di schietta umanità e, al contempo, di un’impressionante capacità poietica ed affabulatoria, non avrebbe modo di alimentarsi, in un mondo come il nostro. Buzzati appartiene interamente al passato: i suoi articoli, gli elzeviri, gli editoriali, trasudano gli umori di un’Italia che non esiste più e di cui rimane nell’aria soltanto un profumo indistinto, capace di riempirci di nostalgia, ma del tutto inimitabile e irrecuperabile. Basta scorrere le pagine della raccolta pubblicata da Mondadori con il titolo “La Nera di Buzzati” per rendersene conto: in quella terrificante sequenza di tragedie immani, l’approccio del giornalista con la pagina bianca è, innanzi tutto, ambientale. Buzzati vuole restituire al lettore il sentimento delle cose, non semplicemente il loro avvertimento, parafrasando Pirandello: cerca di trasmettere l’intima essenza della tragedia, oltre alla sua sensazione. Vi è, nelle sue pagine di cronaca nera, la presenza, invisibile ma sensibile, del male: come una gigantesca mano artigliata che incomba sulle vite delle future vittime, che, ignare, ridono, giocano, chiacchierano. I bambini in colonia, i gitanti della gita in montagna, non hanno percezione di come, di lì a poco, questa catastrofe incombente prenderà forma e sostanza: di come, nell’acqua bassa o dietro un tornante, ci sia la morte, il ‘grim reaper’, pronto a mietere il proprio sanguinoso tributo. Attraverso quelle che dovrebbero essere delle corrispondenze, Buzzati ci avverte della imprevedibilità della vita e, va da sé, della morte: i fatti di cronaca diventano dolorose parabole, apologi sull’obliquo e possente capriccio del destino. Perché Buzzati è come il fanciullino omerico del Pascoli: è un narratore che crede in ciò che narra, fosse pure il mito. E, come il fanciullino, egli possiede un antivedere che avvolge tutta la sua prosa di un’aura di misteriosa meraviglia.
Il giro
Così, il suo Giro d’Italia del 1949 diviene una specie di epopea mitologica: una carovana eroica e, al contempo, surreale, in cui gli uomini si trasformano in metafore e la gara è amplificazione della vita. E’ il Giro del ’49, quello di Ferretti e del suo “…un uomo solo al comando…”, due modi diversi, eppure equivalenti, di cantare la leggenda di Fausto Coppi, di Gino Bartali, di Magni e di Leoni. Buzzati raccontava quello che i suoi occhi vedevano: i suoi occhi, che erano meravigliose lenti deformanti. O, meglio, penetranti: il suo sguardo perforava la realtà e ce ne restituiva il nucleo, dopo averne superato l’involucro. Perché per Buzzati il reale lascia fuggire, dalle sue molteplici fessure, multicolori brandelli di ciò che c’è dietro: ogni tanto, dal grigio muro della realtà trapelano lampi dell’universo che si trova al di là del mero fenomeno. E quello è il regno della fiaba e della fantasia: un mondo sospeso, paralizzato nella sua pura dimensione onirica. Ma, anche, un mondo in cui creature potentissime e crudeli godono nel distruggere, in un momento, le nostre fragili illusioni. Il fantastico buzzatiano non è un universo coerente, come quello di Tolkien o di Howard: è, piuttosto, una parodia caleidoscopica del nostro mondo, con regole variabili e diverse, con orizzonti più sfumati e misteriosi, con un tempo che scorre in modo spesso bizzarro.
Primo elzeviro
Appare ben difficile che questa visione, così particolare e ricca di immaginazione, del meccanismo narrativo possa entrare in un ambito definito e schematico, come è quello del giornalismo: eppure, questo avviene, negli inverosimili elzeviri, nelle cronache, evocative come saghe primigenie, nei reportage. Ad iniziare dal suo controverso, e non troppo benvisto dai colleghi, primo elzeviro, pubblicato sul Corriere della Sera nel marzo del 1933, quando lo scrittore aveva ventisette anni: Vita e amori del cavalier rospo. Viveva, Buzzati, scriveva, osservava, si muoveva: eppure, la sua scrittura ci sembra sempre ruotare intorno ad un suo centro gravitazionale immobile. Da inviato di guerra, soprattutto sul mare (da cui sarebbe nato il suo “Il Buttafuoco”, pubblicato postumo nel 1992, da Mondadori), a cronista sportivo, a commentatore di fatti cruenti, Buzzati, in fondo, ha scritto sempre la stessa pagina: ha raccontato di un immutabile mistero, con precisione da amanuense e un vocabolario esatto, nitido. Bizzarro nitore, inusuale esattezza, per chi scriva di mito. E fantasia e storia, vita vera e vita immaginata, tendevano bizzarramente a mescolarsi, nell’esistenza dello scrittore: Addis Abeba poteva ben prefigurare il deserto che sfumava, davanti agli occhi del tenente Drogo, quando, all’inizio della seconda guerra mondiale, Buzzati vi si trovava e, al contempo, usciva il suo Deserto dei Tartari, per i tipi di Rizzoli. E il senso di “stagnazione” all’origine dell’opera è lo stesso di tanti giovani all’alba di una guerra: non ce ne voglia Borgese, per il saccheggio cui abbiamo sottoposto il suo Rubè.
Miscellanea
Insomma, il vissuto e il sognato, il visto e l’immaginato si sono mescolati, nella scrittura giornalistica di Buzzati e non solo in quella narrativa. Eppure, c’è dell’altro: è come se lo scrittore, attraverso le pagine, cercasse una ragione che non c’è, un puntello al tutto, un Vero che dia senso a tutto il resto. E, non scoprendolo, ci lasciasse queste cronache che sembrano provenire da un altrove, quasi identico alla nostra realtà quotidiana, ma con alcune, impercettibili, differenze, che ci svelino di non essere in questa dimensione, senza dirci in quale altra ci troviamo. Poi, un po’ alla volta, coll’aumentare delle responsabilità, al Corriere e, in seguito, alla Domenica del Corriere, la stringente necessità del reale ha un po’ strangolato la meravigliosa vena fantastica di Buzzati: la sua scrittura si è fatta più “milanese”, il suo approccio più formale: è la stessa evoluzione che possiamo notare confrontando le pagine de I sette messaggeri con quelle di Un amore. La modernità è entrata di prepotenza nel suo piccolo mondo favoloso.
Fantasia solitaria
Forse, non è un caso che la raccolta postuma dei suoi ultimi scritti giornalistici sia intitolata Cronache terrestri: Buzzati era davvero tornato sulla terra, dopo le magnifiche escursioni nel mondo della fantasia che lo avevano ispirato. Quando, ha raccolto i Misteri d’Italia, che sarebbe uscito solo sei anni dopo la sua morte, probabilmente, si è votato al mistero come strumento acchiappalettori: occultismo e magia fanno sempre presa sul desiderio di ignoto della gente. Il vero mistero, però, era quello degli inizi, quello delle montagne impassibili e delle vallette piene di magia: un mistero che Buzzati, alla fine, non volle dividere con il suo pubblico. Forse, sapendo che non avrebbe capito. La sua fu una fantasia solitaria, individuale. Il che, per un grande giornalista, rappresenta il mistero più profondo.
Marco Cimmino