Vecchi spettri in Nuova Caledonia

La Francia d’oltremare è sotto attacco. Dalla Guyana alla Nuova Caledonia aumenta l’insofferenza nei confronti della subalternità all’Eliseo e crescono frequenza e intensità di ribellioni e sedizioni a carattere secessionistico. È competizione tra grandi potenze. È guerra cognitiva.

La crisi in Nuova Caledonia è rientrata. Dopo quindici giorni di disordini, saccheggi e scontri degni della serie The Purge, nell’arcipelago melanesiano è stato restaurato l’ordine, lo stato di emergenza è stato revocato ed è cominciata la pulizia delle strade dai vetri rotti e dai cassonetti bruciati. Emmanuel Macron, per ora, può dormire sonni tranquilli: la rabbia dei canachi, i nativi della Nuova Caledonia, si è esaurita e servirà del tempo perché il malessere diffuso in una delle ultime colonie formali del pianeta si accumuli fino a causare un nuovo incendio. Riposare troppo però non gli conviene, perché le periferie della Francia extraeuropea ribollono, sono diventate terre di operazioni destabilizzative condotte da un agglomerato di potenze, e il maggio neocaledone non è che l’anticipazione delle sfide che attendono l’Eliseo all’orizzonte.

La pace dopo la tempesta

In Nuova Caledonia è giunto il momento di fare la conta dei danni provocati dalla grande insurrezione di maggio. Le cifre provenienti dagli obitori parlano di sette morti, quelle provenienti dagli ospedali parlano di oltre trecento feriti – per un terzo gendarmi –, quelle provenienti dalle forze dell’ordine parlano di più di ottocento arrestati, quelle provenienti dal governo locale parlano di una flessione del prodotto interno lordo pari al 2%, di circa un miliardo di euro di danni e di oltre seicento esercizi commerciali distrutti parzialmente o completamente, per un totale di quasi duemila posti di lavoro andati in fumo.

La Nuova Caledonia è stata a un passo dalla guerra civile, dalla fuga verso un’indipendenza sognata fin dal tardo Ottocento, e soltanto una ricetta a base di tolleranza zero e disconnessione momentanea dell’arcipelago dalla rete ha permesso alla Francia di soffocare quelli che sono stati i moti più violenti dal 1988. A casa Macron, comunque, i motivi per festeggiare sono ben pochi. Quella neocaledone è stata la terza maxi-sollevazione di una realtà periferica in quattro anni: le Indie occidentali nel 2021, le banlieue francesi nel 2023, le isole canache nel 2024. E in tutti e tre i casi qualcuno, o meglio qualcosa, ha alimentato il fuoco delle proteste: TikTok.

La Baku-Pechino connection dietro la grande rivolta canaca

I posteri ricorderanno il bollente maggio neocaledone principalmente per un fatto curioso: la bandiera dell’Azerbaigian quale inaspettato e bizzarro simbolo dei nazionalisti canachi in marcia per le strade di Nouméa.
Quella neocaledone è stata un’insurrezione del sapore caucasico: civili canachi che sventolavano il tricolore di Baku e che mostravano con fierezza foto e ritratti della famiglia Aliyev, politici canachi che ringraziavano l’Azerbaigian per il supporto dato alla loro lotta di liberazione, politici e diplomatici azeri che solidarizzavano col popolo canaco, armate di troll, organizzazioni culturali e pagine social turche e azere impegnate a dare visibilità ai disordini, pubblicizzandoli come una “rivolta anticoloniale”. Nel mezzo, la decisione di Macron di bannare TikTok, reo di fungere da piattaforma di coordinamento per i riottosi e di viralizzare contenuti, come saccheggi ai supermercati e atti antipolizieschi ripresi in diretta dai loro esecutori, suscettibili di incoraggiare voglia di emulazione negli spettatori.

Quella neocaledone non è stata una sollevazione pienamente spontanea. Se è vero che la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’intransigenza dell’Eliseo in merito alle questioni dell’elettorato congelato e di un quarto referendum sull’indipendenza – che sono affrontate durante la puntata a tema –, lo è altrettanto che quel vaso era stato riempito nei mesi precedenti dalla Cina e dall’Azerbaigian. Dalla Cina utilizzando TikTok per riempire i feed degli utenti neocaledoni di disinformazione e di contenuti pro-indipendenza, risvegliando in buona parte dei canachi, specie i più giovani, i sopiti sentimenti patriottici e la dormiente francofobia. Dall’Azerbaigian fondando il Baku Initiative Group, un’entità specializzata nella conduzione di psyops e infowars di impronta antifrancese sui principali social media globali, versando denaro sui conti dei nazionalisti canachi – dichiarazioni dell’ex presidente neocaledone Philippe Gomes –, stringendo accordi coi politici neocaledoni appartenenti al fronte pro-indipendenza e inviando agenti segreti sul posto. L’Azerbaigian stava tramando di vendicarsi sulla Francia, alleata storica dell’Armenia, facendo tremare i rimasugli del suo impero coloniale. Nel luglio 2023, partecipando al vertice ministeriale del Movimento dei non allineati, organizzato a Baku, il presidente neocaledone aveva chiesto ai presenti aiuto nel processo di decolonizzazione della Nuova Caledonia. Tre mesi dopo, in ottobre, diventava operativo il Baku Initiative Group per supportare l’indipendentismo nella Francia extra- europea e in Corsica, nonché per aumentare l’influenza dei movimenti antioccidentali nella Françafrique, per mezzo di eventi dal vivo e online, occasioni di networking e produzione di articoli, analisi e lavori propagandistici.

Nei sei mesi successivi, a partire dall’ingresso in Nuova Caledonia vietato a un giornalista azero in odore di spionaggio, tra Baku e Parigi era stato un crescendo escalatorio. A febbraio, in quel di Ankara, veniva organizzata una conferenza contro il neocolonialismo alla presenza di delegazioni del Baku Initiative Group e dei movimenti pro-indipendenza dei distretti d’oltremare e delle

collettività francesi. In aprile, alla vigilia della grande rivolta neocaledone, il presidente azero Ilham Aliyev annunciava l’intenzione di voler trasformare l’Azerbaigian in uno sponsor del nuovo processo di decolonizzazione e accoglieva una delegazione di politici neocaledoni volata a Baku per siglare un memorandum di cooperazione – un affronto all’Eliseo, unico titolare della politica estera di Nouméa.

Interessi incrociati

La Nuova Caledonia è un caso studio interessante di effetto farfalla nelle relazioni internazionali. Ali che battono tra Ucraina e Caucaso meridionale, dove la Francia è rispettivamente impegnata contro Russia e Azerbaigian, hanno provocato un terremoto in Melanesia.
Crocevia di interessi. La Russia ha compartecipato all’amplificazione dell’eco dei disordini in Nuova Caledonia per distrarre la Francia dall’Ucraina e nel rispetto dell’amicizia senza limiti con la Cina. La Turchia ha aiutato l’Azerbaigian a preparare il terreno per gli scontri, ospitando eventi e inquinando la rete, perché della Francia è rivale sistemica dal Mediterraneo all’Africa subsahariana e perché le relazioni fra turchi e azeri trascendono la mera politica, trattandosi di «una nazione in due stati». L’Azerbaigian, rinvigorito dalla vittoria totale nel Karabakh, vuole contare di più nelle relazioni internazionali ed ergersi a sponsor del nuovo anticolonialismo è un modo per aumentare prestigio e influenza nel Sud globale.

New Caledonia crisis: Does France fear China will dominate Pacific colonies?

La Cina, infine, ha messo gli occhi sulla Nuova Caledonia nel doppio contesto della competizione per le risorse strategiche – il nickel – e dell’aggiramento del sistema delle catene di isole costruita dagli Stati Uniti nel secondo dopoguerra. Geoeconomia e geostrategia guidano i passi di Pechino in Nuova Caledonia, e in esteso nell’intero Pacifico sudoccidentale, come dimostrato dal flirt con le Salomone.

Con l’eccezione di Azerbaigian, Turchia e Russia, che alla Francia sono contrapposte da rivalità politico-militari, per la Cina non è una questione personale: la Francia è vittima collaterale dello scambio di fuoco con gli Stati Uniti. Scambio di fuoco che nel 2024 ha colpito la Nuova Caledonia, geostrategica nel quadro della nuova battaglia del Pacifico, che nel 2021 ha travolto le Indie occidentali, essenziali nella sfida alla dottrina Monroe, e che domani travolgerà altri rimasugli coloniali. Non è una questione di se, ma di quando.


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