Ottantasei anni fa, il 27 aprile 1937, nell’indifferenza generale moriva uno dei più grandi intellettuali italiani, Antonio Gramsci. Per dieci lunghi anni tutti dimenticarono la sua figura, l’unica autorevole, mentre gli intellettuali avversi al regime, i feroci antifascisti, passavano le giornate a riunirsi nei salotti ad invocare la libertà pur conservando stretti rapporti di privilegio coi capi del regime fascista.
La mattina del 16 agosto 1924 gli italiani venivano svegliati da una terribile notizia: il cadavere del deputato socialista Giacomo Matteotti, scomparso il 10 giugno dopo aver denunciato alla Camera brogli e violenze delle squadre fasciste perpetrate durante le ultime elezioni, era stato ritrovato dal cane di un guardacaccia nel bosco della Quartarella.
Il Paese fu profondamente scosso e il governo Mussolini, al potere da quasi due anni, sembrava avere le ore contate. I fascisti strapparono dalle camicie nere il distintivo del fascio, i liberali guardavano con simpatia le opposizioni e la Monarchia, il Clero e l’Esercito sembravano rimpiangere l’Italia dei notabili e di Giolitti. Mussolini si ritrovò solo; sarebbe bastata una spallata dei suoi avversari politici per farlo uscire dal Parlamento e far cadere il governo.
La nascita della dittatura
I giorni passavano lentamente e gli italiani, confusi, cercavano sui giornali una notizia che non leggeranno mai. Ma le opposizioni restavano in silenzio, ritirandosi sull’Aventino. Intanto Mussolini, smarrito, passeggiava in auto per le vie di Roma e osservava i romani: il geometra Rossi, con la sua lucida borsa di pelle nera, apriva puntuale la porta del suo studio; l’avvocato Mancini saliva sul tram che l’avrebbe portato in orario al Palazzo di Giustizia e il bar dei coniugi Ricci proseguiva la vendita di gelati.
La tempesta sembrava essere passata e il cadavere di Matteotti era ormai soltanto un lontano ricordo che tutti avevano una gran voglia di dimenticare. I distintivi col fascio venivano timidamente ripescati dai cassetti e le camicie nere raccoglievano una nuova illustre adesione, quella di Luigi Pirandello. Le opposizioni si suicidavano col proprio silenzio e Mussolini le seppellirà il 3 gennaio del ’25, inaugurando la dittatura.
Il carcere di Antonio Gramsci
Era la fine dello Stato liberale: la Camera venne soppressa, la libertà di stampa abolita e venivano sciolti i partiti politici. Le condanne del tribunale speciale si abbatterono soprattutto sui comunisti e sul segretario del loro partito, Antonio Gramsci. Il Partito comunista venne raso al suolo: ventidue anni di carcere a Terracini, venti a Roveda, a Scoccimarro e a Gramsci, il quale verrà arrestato l’8 novembre del ’26 e portato nel carcere di Regina Coeli. Dopo un breve periodo a Ustica Gramsci venne trasferito nel carcere di San Vittore e, dal 19 luglio del 1928, detenuto nel carcere di Turi, in provincia di Bari.
Per dieci anni fu prigioniero in carceri fasciste o in case di cura e durante questo periodo scrisse “I quaderni dal carcere”. Il pensiero di Gramsci affiora da quelle pagine: la concezione di egemonia, i problemi italiani derivati dalla mancata conoscenza del passato e la concezione che l’intellettuale sardo aveva del fascismo, una classe dirigente di ignoranti e prepotenti che è diventata élite grazie a un decreto. Gramsci, fragile e malato, tentò più volte di ottenere la liberazione.
I Quaderni di Gramsci
Nei Quaderni riusciva a superare il suo status di prigioniero. Furono tantissimi i contatti, diretti e indiretti, che il leader comunista seppe comunque sviluppare. Il primo tentativo di scambio era stato presentato al nunzio vaticano a Berlino Eugenio Pacelli, futuro Papa Pio XII, dall’incaricato d’affari sovietico a Berlino Stefan Bratman-Brodowski. La proposta fallì e l’errore maggiore fu quello che ancora oggi è il più difficilmente comprensibile: una valutazione del tutto errata dell’atteggiamento del Vaticano e della Chiesa.
Non è facile capire come Gramsci potesse pensare nel 1927, continuando a riproporsi la questione per altri sette anni, che la Chiesa avrebbe contribuito a toglierlo di galera: ed erano gli anni dei conflitti drammatici tra Urss e Vaticano. All’alba del 27 aprile del ’37 Gramsci muore su un letto della clinica Quisisana di Roma; due giorni prima, il 25 aprile, un’emorragia cerebrale piegò definitivamente il suo fragile corpo. Nel processo del ’28 che condannava Gramsci il p.m. fascista Isgrò riportò a gran voce la volontà di Mussolini: “Bisogna impedire a quel cervello di funzionare per almeno vent’anni”. Non ci riuscì.
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