Ugo Tognazzi, il fascismo e “La marcia su Roma”

Anno 1922: nel mese di marzo, a Cremona, nasceva Ugo Tognazzi; otto mesi più tardi, il 28 ottobre, il Re invitava il capo del fascismo Benito Mussolini a Roma per dargli l’incarico di formare il governo e le camicie nere marciavano sulla capitale. A cento anni da quegli eventi, il racconto di quella che anni più tardi fu definita “la comicità fascista”.

“La situazione politica in Italia è grave ma non seria”, scriveva Ennio Flaiano negli anni Sessanta. Anni del boom economico, nei quali la paura della guerra, delle restrizioni e della perduta libertà erano soltanto un lontano e triste ricordo. Chi era sopravvissuto ai bombardamenti e alla ferocia nazifascista voleva lasciarsi definitivamente quelle angosce alle spalle e attraversare nuove esperienze, nuove distrazioni e nuove spensieratezze. Una di queste era il cinema, in particolare quello della commedia, che rappresentava un momento nel quale la società italiana, mentre viveva un inaspettato benessere generale, poteva ridere di sé stessa, riflettendo sui propri vizi e i propri difetti. Sotto il fascismo gli italiani avevano vissuto sotto un regime che per vent’anni aveva esaltato le virtù della propria stirpe, aveva infervorato il proprio valore e infiammato il proprio coraggio. Il Paese, dopo la caduta del Duce, si accorse di aver vissuto in un grande set cinematografico, nel quale tutti recitavano compiaciuti la propria parte.

Ugo Tognazzi ne Il magnifico cornuto (1964), di Antonio Pietrangeli.

L’uscita del film

In questo contesto, nel 1962 uscì nelle sale cinematografiche “La marcia su Roma” di Dino Risi. Il film ripercorre tre anni fatali per la storia d’Italia. Partendo dal marzo 1919, con la fondazione dei fasci di combattimento a Milano, la pellicola si conclude il 30 ottobre 1922, con il saluto di Vittorio Emanuele III alle camicie nere di Benito Mussolini che marciavano nella capitale. Una marcia che la propaganda ha raccontato essere marziale, inquadrata, composta da guerrieri valorosi armati e in uniforme che erano stati scelti dalla provvidenza per salvare l’Italia dalla lenta e incapace burocrazia democratica dell’epoca liberale. Gli antefatti mettono i vari personaggi a nudo, ed essi, con le proprie caratteristiche, in un’atmosfera più burlesca che tragica (anche se non mancheranno alcuni momenti drammatici) mostrano allo spettatore i propri pregi (pochi) e i propri difetti (molti). Dino Risi non la butta in caciara, ma riflette su quei sentimenti di grandezza che caratterizzarono il regime fascista anche quando le circostanze erano comiche; e, solo per motivi temporali del film, non abbiamo visto i grassi e impacciati gerarchi rendersi ridicoli saltando attraverso dei grandi cerchi infuocati, mentre il pubblico ne inneggiava l’aspetto guerriero.

Il dopoguerra

Il sipario della pellicola si apre nei primi mesi del 1919, nella Milano dell’immediato dopoguerra. Un reduce, Domenico Rocchetti, interpretato da Vittorio Gassman, vaga per le strade millantando meriti militari che non aveva e una medaglia con la quale non era mai stato decorato. Rappresenta lo stereotipo degli ex combattenti che, una volta tornati nelle loro case, dopo tre anni in trincea, chiedevano “pane al governo”. Disoccupato, viveva alla giornata, chiedendo delle offerte in denaro ai milanesi che con passo svelto e volto chino pensavano ai loro affari. Presentandosi con una falsa identità, incontra fatalmente il suo ex-capitano durante la guerra, Paolinelli, il quale dopo averlo malmenato gli propone di iscriversi ai fasci di combattimento. In quel periodo il fascismo non aveva ancora un’anima ben definita. Era composto per la maggior parte dai soldati poveri che non trovarono una tranquillità economica dopo la Grande Guerra. Un gruppo composto da proletari, un movimento politico che tendeva a sinistra e che vedeva due capi, uno in Benito Mussolini e l’altro in Gabriele D’Annunzio. Il programma vantava idee socialiste, come la terra ai contadini, l’abolizione dei titoli nobiliari e l’instaurazione della Repubblica. Rocchetti, davanti a un pasto che nessuno dei due pagò, sia per fame che per quelle idee rivoluzionarie accettò l’offerta del capitano.

L’incontro tra i protagonisti

Durante la campagna elettorale, dopo uno scontro coi rossi, i fascisti ebbero la peggio e Rocchetti, malmenato per la seconda volta, si rifugia in un casolare, dove viene aggredito da un contadino. L’uomo risulterà essere un suo ex commilitone, Umberto Gavazza, interpretato da Ugo Tognazzi. Il casolare era di proprietà del cognato di Gavazza il quale, di idee fortemente antifasciste caccia entrambi, i quali, da quel momento, abbandonando quel vecchio casolare rustico popolato da proletari, sotto la pioggia e imbevuti dal fango delle pozzanghere cominciavano una nuova avventura nel servire la causa fascista.

A casa dell’anziano giudice

La loro prima grande occasione patriottica non fu eroica come essi credettero dapprincipio. Con la ramazza in mano, dovettero spazzare le vie di Milano, rimaste sporche a causa di uno sciopero dei netturbini. In quell’occasione, dopo degli scontri con la polizia, i due vennero arrestati e condannati a due anni di galera dall’anziano giudice Milziade Bellinzoni. Successivamente, vennero liberati dagli squadristi, i quali assaltarono le caserme per liberare tutti quelli che avevano subìto degli “arresti politicizzati”. Da questo momento cominciò la vera ascesa del fascismo, il quale cominciò a delineare sempre più la propria linea politica e che abbandonò quel lieve socialismo delle origini per appoggiare le cause dei grandi industriali che si servivano delle camicie nere per fermare gli scioperi.

Addio al programma dei fasci

Gavazza, intanto, porta sempre con sé il programma originale di Piazza San Sepolcro del 23 marzo 1919; e, ogni volta in cui un punto del programma non veniva rispettato, quando a volte completamente rovesciato nella sua idea originaria, lo depenna dalla lista. Sempre più sfiduciato, sia lui che Rocchetti capiranno che le idee del fascismo e dei fascisti cambiavano a seconda del vento che tirava. Intanto i fascisti decisero di prendere il potere con la forza e gli squadristi erano occupati in spedizione punitive nei confronti degli avversari politici o verso chi li aveva ostacolati in passato. Rocchetti e Gavazza decisero di punire il giudice, ormai in pensione, che li aveva condannati anni prima. Si presentano con una bottiglia di olio di ricino e l’atteggiamento di chi sta per compiere un’azione audace. Tuttavia la situazione si ribalterà. Il magistrato risulterà più sicuro di sé, più coraggioso e più energico rispetto a quegli ospiti che rivendicavano questi forti sentimenti patriottici. I due non trovano argomentazioni, risultano solo imbevuti di una propaganda che non comprendono e non riescono a inquadrare. Credono di essere liberi, ma il giudice, con una più elevata moralità, li accusa di essere manipolati poiché l’idea che le idee possano essere imposte agli altri (come facevano i fascisti utilizzando la violenza) è il principio stesso per non avere più idee ed essere schiavo di qualcuno che sta al comando. In silenzio lasciarono quella casa, sconfitti e condannati dal giudice per la seconda volta.

L’adunata fascista a Napoli

Proprio in quei giorni a Napoli si teneva una grande adunata del Partito Nazionale Fascista, nella quale Mussolini dichiarò alle sue camicie nere in delirio: “O ci daranno il governo o lo prenderemo calando a Roma”. La marcia era decisa e tutti i fascisti erano mobilitati: bisognava raggiungere la capitale. Anche Rocchetti e Gavazza partirono, agli ordini di Marcacci, detto Mitraglia, squadrista violento, nemico dei compromessi e senza scrupoli interpretato nel film da Mario Brega. Furono quattro giorni terribili, nei quali veniva a galla la vera essenza del fascismo più bieco e rissoso. Le camicie nere sconvolgevano locali senza pagare il conto (le pagavano con immagini di Mussolini), molestavano donne e si davano ad atti di violenze gratuite. E, dopo che Mitraglia uccise un ferroviere a mani nude, decisero di lasciare per sempre quella squadra di sbandati che riposava in un dormitorio di fortuna. Si concluse così l’avventura fascista dei due reduci della Grande Guerra, i quali, senza alcuna particolare abilità e semianalfabeti, avevano cercato fortuna in un movimento che seduceva raccontando una realtà diversa da quella che si mostrava.

La comicità fascista

Lo stesso Ugo Tognazzi, di cui quest’anno ricorrono i cento anni dalla sua nascita, raccontò gli aspetti comici del fascismo ormai diventato regime e della sua componente tragicomica. In un’intervista rilasciata a Enzo Biagi negli anni Settanta, Tognazzi raccontò com’era il fascismo a Cremona, la sua città, e in particolare raccontò di una leggendaria sfilata: “Vedi Biagi, quelli che si piccano di aver fatto dell’antifascismo, mettendo una frase antifascista su un romanzo che invece è tutto fascista, non possono definirsi antifascisti. Invece, questo mio amico, omosessuale, chiamato nelle organizzazioni giovanili, vestito con camicia nera e fasce grigioverdi, un giorno doveva sfilare per le strade di Cremona. Lui camminava, insieme agli altri, e di certo il suo andamento era un po’ meno marziale rispetto a quello degli altri. Poi, di certo, chissà anche gli altri cosa nascondevano… E lui marciando sculettante, mentre gli altri erano tutti oscuri cantava in coro: «Una maschia gioventù, con romana volontà, combatterà!». Quell’uomo sculettante in camicia nera fu un vero, primo atto di antifascismo, nella grande commedia che fu il fascismo!”.

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