Gaza 2023: la sconfitta da manuale di Israele

Il 7 di ottobre del 2023 è una data che, comunque la si pensi, passerà senza dubbio alla Storia. Alle 06:30 di mattina (ora di Israele) le Brigate Izz ad-Din al-Qassam, forze militari del movimento politico/terrorista palestinese Harakat al-Muqawamah al-Islamiyyah (Movimento di Resistenza Islamica) più noto internazionalmente con il nome di “Hamas”, hanno lanciato la prima vera e propria invasione del territorio internazionalmente riconosciuto dello Stato d’Israele dall’epoca dalla Guerra di Indipendenza del 1948-49.

Certo, se è pur vero che questa non è in realtà la prima volta da allora che lo stato ebraico sia stato oggetto di un attacco o che venga sorpreso da un’azione offensiva da parte di un nemico (da questo punto di vista tutti si ricordano della Guerra dello Yom Kippur avvenuta proprio 50 anni fa!) nondimeno non era mai accaduto dalla Guerra d’Indipendenza ad oggi che un vero e proprio esercito avesse varcato in forze la frontiera devastando una vasta area e lasciandosi alle spalle una scia di morte e sangue. Sì, perché quella che, originariamente, era stata dipinta nei primi report frammentari come una sorta di incursione su vasta scala, si è in realtà tramutata in qualcosa di assai più sinistro che quasi nessuno si aspettava. Per la verità, i miliziani di Hamas (a tutt’oggi non è ancora dato sapere se 1.000, 2.500, 3.000 o di più) non si sono presentati da soli a questo truce appuntamento con la Storia dato che, da quando sono stati esplosi i primi colpi della guerra sino ad ora, anche gli altri gruppi della militanza armata palestinese presenti nella Striscia di Gaza e pure nella Cisgiordania, come le Brigate al-Quds (il braccio armato della Jihad Islamica Palestinese), le Brigate Abu Ali Mustafa (il braccio armato del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina), le Brigate della Resistenza Nazionale (il braccio armato del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina), le Brigate Al-Nasser Salah al-Deen (il braccio armato dei Comitati di Resistenza Popolare), le Brigate Jihad Jibril (il braccio armato del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina-Comando Generale), le Brigate dei Martiri di al-Aqsa (una volta braccio armato di Fatah, ora indipendenti) e tutta una serie di gruppi minori ma non meno pericolosi o determinati, si sono mobilitati in sostegno all’operazione militare/terroristica denominata “Diluvio di al-Aqsa” in quella che è stata giustamente ribattezzata con il nome di “Palestinian Joint Operations Room”, ossia “Sala Operativa Congiunta Palestinese”.

La nuova Guerra di Gaza ha inoltre riacceso le tensioni mai sopite sulla frontiera nord tra Israele e Libano laddove le Forze di Difesa Israeliane (IDF) e le forze militari del partito sciita libanese filo-iraniano Hezbollah sono in uno stato di perenne “quasi guerra” dalla conclusione del conflitto del 2006, l’unico in tutta la Storia militare israeliana nel corso del quale le forze armate con la stella di Davide abbiano fallito nel raggiungere anche solo parte dei loro obiettivi. In molti, tra i quali l’autore di queste pagine, ritengono che sia solamente una questione di tempo prima che Hezbollah entri pienamente nel conflitto a fianco dei gruppi armati palestinesi, ora sotto pressione a Gaza, prendendo quindi Israele nella morsa di una tenaglia strategica che sarebbe assai difficile da spezzare. In ogni caso, ad oggi, tale scenario non si è ancora pienamente concretizzato anche se non sono mancati affatto gli scambi armati tra i due lati della frontiera che hanno causato perdite e distruzioni ad ambo le parti.

Curiosamente, a fianco dei palestinesi si sono schierati anche gli Houthi yemeniti ed i gruppi sciiti siriani ed iracheni pro-iraniani, i quali hanno iniziato ad attaccare saltuariamente il territorio israeliano mediante l’utilizzo di missili balistici, missili da crociera e droni kamikaze, aumentando quindi da tutti i lati la pressione su Israele ed il suo sistema di difesa antiaerea ed antimissile del quale il celebre “Iron Dome” rappresenta l’elemento senza dubbio più pregiato e sottoposto a costante attenzione mediatica, ma anche il sistema “Arrow-3” ha avuto modo di distinguersi più di una volta, specialmente nella difesa della città meridionale di Eilat che si affaccia sul Mar Rosso e si è scoperta particolarmente vulnerabile ai missili sparati dagli Houthi yemeniti.

Ad oggi la fine di questa nuova Guerra di Gaza (ancora passibile di allargamento!) pare assai lontana dalla sua conclusione, tuttavia se vogliamo cercare di fare delle ipotesi su come le cose evolveranno, è prima necessario fare un passo indietro e capire il contesto internazionale sullo sfondo del quale è maturata l’attuale guerra perché, come dice l’antico adagio: “Niente è come sembra” e nel Medio Oriente spesse volte le apparenze ingannano e solamente i più furbi e coloro che stanno attenti a non farsi scoprire riescono ad un tempo a giocare la partita e uscirne vittoriosi.

LO SCENARIO INTERNAZIONALE, “L’EFFETTO BRICS” E LE TRAME DI SAUDITI, QATARIOTI ED IRANIANI

Se andiamo a scavare nel pozzo delle indiscrezioni pubblicate sulla stampa internazionale a partire dall’inizio del conflitto sino ad ora, la quasi totalità dei commentatori ha avanzato l’ipotesi che tale iniziativa sia stata architettata da Hamas per sabotare il processo di allargamento dei cosiddetti “Accordi di Abramo” che avrebbero dovuto estendersi anche al Regno d’Arabia Saudita, e che dietro a tale manovra ci fosse la mano della Repubblica Islamica dell’Iran.

L’autore della presente analisi è fortemente in disaccordo con tale ricostruzione che ritiene parziale e foriera di macroscopici fraintendimenti. E’ verissimo che, a partire dalla rivoluzione del 1979 sino ad oggi, l’Iran abbia investito un enorme capitale economico-finanziario, militare, politico ed ideologico nella creazione di un “fronte amico” che coinvolgesse sia governi compiacenti che movimenti islamici ideologicamente allineati; l’esempio classico che viene sempre citato a tal proposito è quello degli Hezbollah libanesi. Tuttavia Hamas non ha mai realmente fatto parte di tale “serraglio” in alcuna delle fasi della sua parabola esistenziale.

Sorvolando la complicata Storia della nascita e dello sviluppo di Hamas così come il suo retroterra ideologico originato dal più vasto movimento della Fratellanza Musulmana, e tacendo della indiretta complicità israeliana relativamente alla sua ascesa, vista come un “antidoto allo strapotere dell’OLP negli anni ’80 del XX secolo”, bisogna constatare che, soprattutto negli ultimi dieci-quindici anni della sua esistenza, il “Movimento della Resistenza Islamica” pur mantenendo solidi rapporti di cooperazione, soprattutto in campo militare, con l’Iran, ha avuto nel Qatar e, soprattutto, nell’Arabia Saudita e negli altri paesi del Golfo i suoi principali sponsor politici e finanziatori più o meno palesi ed occulti.

Da quando gli israeliani lasciarono la Striscia di Gaza, nel 2005, sono state infatti le due “Monarchie Wahhabite” i potentati mediorientali che si sono fatti carico, per ragioni sia di politica estera che di politica interna, di garantire la sopravvivenza di Hamas e trasformarlo in un attore regionale dotato di un suo peso specifico non disprezzabile (basti ricordare a tal proposito il ruolo in chiave anti-Assad che Hamas ha giocato nel contesto della Guerra Civile Siriana, anche qui spinta da sauditi e qatarioti). Si dica ciò che si vuole e si creda alle favole che si preferiscono, ma a Gaza non esistono segreti per Riyad e Doha e Hamas non avrebbe mai fatto ciò che ha fatto senza l’esplicito avvallo delle due capitali del Golfo. Punto.

Nel corso di gran parte del 2023 si era più volte speculato sul fatto che l’Amministrazione Biden, proseguendo in questo senso sul sentiero tracciato dalla precedente Amministrazione Trump, riuscisse nel capolavoro diplomatico di estendere i cosiddetti “Accordi di Abramo” anche all’Arabia Saudita, giungendo in tal modo alla normalizzazione dei rapporti tra lo Stato Ebraico ed il Regno Wahhabita per eccellenza, il tutto in chiave anti-iraniana. Gli israeliani, in particolare, erano a tal punto concentrati e proiettati su questo obiettivo da ignorare gran parte delle altre macchinazioni che, quotidianamente, attraversano la scena politica mediorientale ed hanno sottovalutato le avvisaglie di ciò che stava per accadere, ed i sauditi ne hanno approfittato per rifilargli la più classica delle pugnalate alle spalle, nel più puro stile della tradizione beduina. 

Ciò spiega in parte la ragione per la quale siano stati colti letteralmente “con le brache calate”, senza possibilità d’appello. Non è un caso poi che tutto ciò sia avvenuto pochi giorni dopo gli eventi che hanno portato alla resa definitiva dell’autoproclamata Repubblica del Nagorno-Karabakh (Artsakh) alle armate di Baku, nell’area caucasica, con conseguente esodo, nel più totale disinteresse internazionale, della plurimillenaria comunità armena autoctona, ma soprattutto pochi giorni dopo l’annuncio congiunto da parte di Russia ed Arabia Saudita che vi sarebbe stato un netto taglio della produzione petrolifera. Dall’inizio dell’anno e fino al mese di agosto infatti, il prezzo del petrolio ha oscillato in una banda compresa tra un minimo di 70 ed un massimo di poco meno di 100 dollari al barile. Dopo l’annuncio, avvenuto alla Conferenza di Johannesburg, del futuro allargamento dei BRICS (che vedrà per l’appunto la contemporanea adesione al prestigioso “club” dell’Iran e dell’Arabia Saudita dopo che, nel recente passato, entrambe le potenze regionali sono state di fatto obbligate dalla Cina in punta di baionetta ad appianare, o quanto meno congelare, le opposte controversie), l’Arabia Saudita e la Russia si erano affrettate a scuotere i mercati affermando che di lì a breve avrebbero tagliato la produzione dell’oro nero. L’effetto è stato istantaneo, proiettando il prezzo del barile a circa 100 dollari. Nell’arco degli ultimi cinque giorni, prima del precipitare degli eventi, tra lunedì 2 e venerdì 6 ottobre, gli americani, che comunque ancora controllano gran parte degli scambi presso le borse del petrolio, avevano organizzato delle operazioni che, nell’arco di cinque sedute, hanno fatto ricalare il prezzo fino a 82 dollari al barile (osservando i grafici consultabili liberamente online si nota che esso ha rappresentato uno dei cali più marcati degli ultimi 3 anni!) e a quel punto, il 7 di ottobre del 2023, i sauditi hanno dato la loro risposta utilizzando Hamas come braccio armato.

Quanto avvenuto, ha poi rilasciato onde d’urto anche in altri scacchieri geopolitici. In Siria, per esempio, la Turchia, già da tempo impegnata in un serrato braccio di ferro con gli Stati Uniti in merito al futuro da riservare alle SDF (Forze Democratiche Siriane) a maggioranza curda e che proprio in quei giorni aveva visto uno dei suoi droni da sorveglianza abbattuto proprio dall’USAF, aveva accolto con favore l’ipotesi di una normalizzazione israelo-saudita, vista come un controbilanciamento al potere dell’Iran nella regione. L’offensiva palestinese ed il feroce contrattacco israeliano hanno obbligato i vertici turchi a giocare in maniera reattiva confinandosi per la prima volta al ruolo di “gregari”. Isolata dalle altre potenze musulmane regionali del Medio Oriente (Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto stanno tutti venendo risucchiati nell’orbita dei BRICS mentre le intese strategiche che il Qatar ha stabilito con Iran, Arabia Saudita e Russia lo hanno svincolato dall’abbraccio potenzialmente mortale con Ankara) e con relazioni ora palesi ora occulte con Israele di natura tutt’altro che chiara, la Turchia per bocca del suo presidente-dittatore Recep Tayyip Erdoğan per non rimanere isolata ha dovuto tirare fuori la carta della “solidarietà islamica” lanciando alcune delle più virulente invettive contro lo Stato Ebraico senza però risultare particolarmente credibile agli occhi delle popolazioni mediorientali che infatti hanno continuato a guardare alle mosse del duo Arabia Saudita-Iran per capire dove stesse effettivamente tirando il vento.

Il relativo successo della manovra iraniano-saudita potrebbe avere effetti imprevedibili sulle scelte di politica estera di Ankara. Con Israele messosi all’angolo con le sue stesse mani (a causa degli inevitabili effetti della Guerra di Gaza) e con i paesi arabi sempre più sedotti dal blocco eurasiatico che comprende Russia, Cina ed India, i turchi si trovano ora in prospettiva a doversi scornare con gli iraniani in un prossimo futuro. Teheran controlla infatti saldamente un corridoio geopolitico che dall’Iran, attraverso l’Iraq, la Siria ed il Libano giunge sino al Mar Mediterraneo e minaccia da vicino Ankara isolandola dal resto del Medio Oriente. Da parte sua, la Turchia sta lavorando alla creazione di un corridoio strategico alternativo in direzione del Mar Caspio e dell’Asia Centrale turcofona lungo l’asse Turchia-Nakhichevan-Zanghezur-Nagorno-Karabkh-Azerbaigian che costituisce a sua volta una minaccia esistenziale per i persiani dato che la creazione di un unico blocco pan-turco alla frontiera nord-occidentale dell’Iran avrebbe effetti destabilizzanti sugli oltre 20 milioni di azeri etnici che vivono entro i confini della Repubblica Islamica. L’effetto di questi opposti piani espansionistici rischia veramente un domani di portare alla collisione tra i due blocchi e precipitare l’intera area in un unico grande conflitto mediorientale-caucasico.

In questo contesto però, il 7 di ottobre 2023, i sauditi ed i loro “fratellini” del Golfo hanno fatto la loro scelta, ma essa (e questo è veramente degno di nota) non è avvenuta, come si sarebbe detto fino a non molto tempo fa, lungo il divisorio confessionale (sciiti contro sunniti) e nemmeno su quello etnico (arabi contro persiani), bensì lungo il divisorio “produttori di materie prime” contro “acquirenti di materie prime” che i BRICS hanno coscientemente e razionalmente inaugurato con la Conferenza di Johannesburg, che nel futuro verrà a questo punto analizzata dalle prossime generazioni di analisti geopolitici come il punto di svolta della geopolitica della prima parte del XXI secolo. Per parte sua l’Iran non ha fatto passi indietro, ma ha anzi giocato fino in fondo il suo ruolo in funzione di antagonista contro Israele, in questo rincuorato dalle prese di posizione dei suoi partner storici: la Cina e la Corea del Nord.

Tradizionalmente assente dalle scene mediorientali infatti, Pechino ha fatto eccezionalmente sentire la propria voce sottolineando “il diritto dei palestinesi ad esistere e condannando la spropositata reazione israeliana” mentre a Pyongyang il Leader Supremo, Kim Jong Un, ringalluzzito dalle nuove intese strategiche recentemente siglate con la Russia, ha dato ordine agli apparati del “Regno Eremita” di studiare un piano per “supportare i palestinesi in ogni modo possibile contro gli israeliani”. Se sauditi e qatarioti hanno attaccato Israele mediante Hamas, gli iraniani hanno messo sul tavoli come pegno al fine di suggellare definitivamente l’intesa con le due “monarchie wahhabite”, i loro alleati di Hezbollah nonché gli Houthi e le milizie sciite filo-iraniane operanti in Siria ed Iraq che stanno tutti aumentando lentamente ma inesorabilmente la pressione nei confronti dello Stato Ebraico, ora trascinato (grazie alla tattica del “muro di gomma”) nella voragine di uno snervante conflitto di logoramento trascinato nel tempo che ne mette a dura prova tanto l’economia quanto la società.

Quanto sta avvenendo nel Medio Oriente deve essere monitorato con estrema attenzione ma non deve essere separato dal contesto generale della geopolitica mondiale perché, parallelamente, in questo 2023 che sta volgendo al termine, siamo stati anche testimoni della continua recrudescenza della Guerra Russo-Ucraina, di un incremento delle incursioni aeree e navali cinesi nell’area attorno a Taiwan, così come degli incidenti tra la Marina Cinese e quella delle Filippine nell’area delle isole Spratly, la caduta del Nagorno-Karabakh, le nuove fiammate della Guerra Civile Siriana, lo scoppio della Guerra Civile Sudanese ed il susseguirsi di ben 8 colpi di stato in Africa. Tutto questo e molto altro devono farci drammaticamente constatare che Francesco, il Pontefice della Chiesa Cattolica Romana, aveva visto giusto nell’ammonirci che saremmo stati testimoni di una “guerra mondiale a pezzi”, forse meno appariscente delle prime due, ma non meno drammatica e dagli esiti comunque imprevedibili.

7-8 OTTOBRE 2023, L’OFFENSIVA DI HAMAS, LA FINE DELL’INVINCIBILITÀ ISRAELIANA E LA PRIMA “VITTORIA” DELLA “PALESTINA”

Una delle citazioni più famose attribuite allo storico, militare e giornalista britannico Sir Basil Henry Liddell Hart recita che: “la Strategia dipende, per il successo, prima e soprattutto, da una corretta valutazione e coordinamento dei fini con le risorse”. Per la verità, Liddell Hart non fu l’unico osservatore a premurarsi in vita di ammonire il suo uditorio in merito ai rischi che una dispersione delle risorse può causare per il successo di una strategia di guerra. Alla vigilia dell’entrata del Regno d’Italia nella Prima Guerra Mondiale infatti, il capo di Stato Maggiore, Generale Luigi Cadorna redarguì con estrema franchezza il Governo Italiano, reo di voler imporre al paese una strategia troppo ambiziosa e pericolosamente dispersiva, con le seguenti parole: “non potendosi proporzionare i mezzi al fine, s’impone di proporzionare il fine ai mezzi, non dovendosi dimenticare che, in qualunque impresa, il disegno politico rimane per forza di cose subordinato alla possibilità militare di tradurlo in atto”[1].

Ripensando al significato profondo di queste parole e a quanto visto nel corso degli eventi del 7-8 ottobre 2023, non si può non notare, con una certa ironia, che gli strateghi di Hamas e degli altri gruppi militanti palestinesi abbiano ormai fatto il salto di qualità e debbano essere annoverati a denti stretti come parte integrante della stessa “classe” alla quale appartengono i loro “colleghi in divisa” provenienti da tutti i paesi del mondo. In virtù dei risultati ottenuti nel corso dei primi due giorni della presente guerra bisogna ammettere con franchezza che, dal punto di vista tattico, operativo e strategico, i palestinesi hanno compiuto un autentico capolavoro di arte militare e nessun analista sano di mente può permettersi di mettere in dubbio questa verità lapalissiana.

Il primo successo che i palestinesi hanno ottenuto è stato nel campo della pianificazione. Senza dubbio è vero che quanto avvenuto non è stato frutto dell’improvvisazione o di un momentaneo “lampo di genio” (quantunque genio del Male, come direbbero alcuni). Per pianificare un simile “colpo” occorrono come minimo due anni, per giunta all’ombra della “spada di Damocle” di venire scoperti dal nemico in ogni fase della preparazione. E’ evidente che le misure di segretezza adottate da Hamas e dalle altre organizzazioni militanti palestinesi sono state di prim’ordine e hanno interessato anche misure attive di controinformazione e “maskirovka” messe in atto deliberatamente per far abbassare la guardia al nemico. Come già accennato nella sezione precedente poi, l’intero contesto diplomatico ed i contatti più o meno segreti che Israele e gli Stati Uniti hanno avuto con l’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo in generale ha funto da addizionale “maskirovka di alto livello” permettendo ai palestinesi di ultimare la preparazione all’ombra del “teatro diplomatico” prima dell’inevitabile “coltellata alla schiena”.

Uno degli elementi che hanno maggiormente impressionato gli osservatori internazionali è stata la velocità e la sicurezza con la quale i miliziani si sono mossi in territorio israeliano dopo aver infranto l’argine delle difese statiche del nemico situate tutto attorno alla Striscia di Gaza. Essi sono infatti riusciti a raggiungere aree relativamente lontane dalla “linea del fronte” come la grande città di Ashkelon con il suo porto strategico, oppure la più piccola città di Ofakim, nota per la presenza della base aerea della IASF (Israeli Air and Space Force) di Hatzerim. Egualmente degno di nota il fatto che i palestinesi siano riusciti ad attaccare e prendere il controllo di importanti basi militari dell’Esercito come quelle di Re’im e Zikim, riuscendo a infrangerne le difese addirittura nei punti deboli accuratamente scoperti in precedenza e sfruttati puntualmente. Anche l’assedio e la devastazione dei kibbutzim dell’area presenta elementi di una sistematicità tale da non lasciare spazio all’improvvisazione.

Tutto ciò che è stato detto sopra punta il dito in direzione di un lungo e laborioso processo di raccolta di dati relativi agli obiettivi sensibili che andavano investiti nel corso dell’offensiva. E’ assai probabile che, da questo punto di vista, Hamas e gli altri movimenti militanti palestinesi abbiano goduto del sostegno degli specialisti di Hezbollah o di informazioni di intelligence di prima mano provenienti dalla Siria e dall’Iran, tuttavia non devono essere dimenticate le decine di migliaia di palestinesi, sia residenti a Gaza che nella Cisgiordania, che a cadenza quotidiana varcavano la frontiera per lavorare in Israele e che, prevedibilmente, in maniera cooperativa o coatta hanno fornito ai pianificatori tattici le informazioni che gli sono servite per organizzare una mappa tridimensionale del campo di battaglia e della aree da investire. Sicuramente costoro erano pure a conoscenza dei dettagli (probabilmente ottenuti monitorando i social network) relativi al festival musicale di Re’im, preso d’assalto dai commandos con la bandana verde discesi dal cielo a mezzo di parapendio a motore proprio in mezzo alla folla di giovani in festa come lupi su un branco di agnelli.

Il secondo risultato che i palestinesi hanno ottenuto è stato di natura tattica, ossia il fatto che la loro “invasione” (perché di invasione in piena regola si è trattato!) ha avuto pieno successo, scuotendo fin nelle fondamenta la società e le strutture militari dello Stato Ebraico. Come prima cosa, i palestinesi hanno messo in crisi il sistema di difesa antimissile israeliano centrato attorno alle batterie del sistema Iron Dome. Sebbene alcuni analisti abbiano avanzato l’ipotesi che una delle batterie sia stata sopraffatta da un ben coordinato attacco di commandos, ad oggi non è emersa alcuna prova che tale evento sia mai avvenuto. Ciò che è invece emerso sino ad oggi è che il sistema Iron Dome è stato messo in crisi da un sbarramento mastodontico di non meno di 5.000 razzi sparati nell’arco di 20 minuti ed accompagnato da precisi attacchi informatici effettuati dalla cellula di Hamas demandata alle operazioni cibernetiche ed EW.

Successivamente, come già detto in precedenza, i palestinesi sono riusciti ad infrangere le difese statiche posizionate dagli israeliani attorno a Gaza arrivando persino a prendere il possesso del comando della 143a Divisione “Fire Fox”, anche detta “Divisione Gaza”, situato a Re’im. Per alcuni giorni si era persino temuto che l’ex-comandante dell’unità, il maggior generale Nimrod Aloni, fosse caduto nelle mani dei militanti; fortunatamente almeno tale indiscrezione è risultata priva di fondamento. Drammaticamente vero è stato invece il fatto che la primo contrattacco israeliano, organizzato già nella giornata del 7 ottobre per cercare di “arginare le falle” si sia concluso in un autentico disastro. Le forze speciali intervenute via terra e dal cielo sono infatti cadute in una serie di gigantesche imboscate in diversi luoghi che i miliziani palestinesi avevano accuratamente scelto in precedenza. Gli elicotteri con la Stella di Davide sono stati bersagliati dalle mitragliatrici pesanti e dai pochi MANPADS a disposizione dei palestinesi e ben 7 sono stati colpiti con la perdita confermata di almeno 1 di essi, completo di equipaggio e squadra di “specialisti” imbarcata.

Non meglio è andata ai loro commilitoni accorsi per le vie terrestri, le cui colonne di veicoli sia corazzati che non protetti sono state sistematicamente bersagliate dalle armi anticarro palestinesi. La confusione ed il caos hanno regnato totali al punto che i piloti degli elicotteri d’attacco AH-64A/D Apache ed i carristi dei carri Merkava III e IV hanno finito per fare fuoco contro gruppi di ostaggi israeliani che stavano venendo trasferiti a piedi, in auto, in motocicletta o su carretti trainati da asini verso i covi dei miliziani situati nella Striscia. Il tutto è stato poi amplificato un multiplo di volte dai video girati dagli stessi miliziani e prontamente “sparati” nel web e diventati in poco tempo virali tanto da venire utilizzati persino dai grandi network dell’informazione internazionale, alcuni dei quali si trovano ora sotto il pubblico scrutinio ed in una posizione assai imbarazzante essendo emerso che molti loro collaboratori palestinesi locali erano persino incorporati (o come direbbero gli anglosassoni, “embedded”) con i gruppi dei miliziani di questa o quella fazione. Anche dal lato “cognitivo” quindi, l’offensiva palestinese è stata un pieno successo ed ha letteralmente mandato in frantumi il mito dell’invincibilità israeliana faticosamente costruito e mantenuto per 75 anni di Storia.

Da ultimo, la ciliegina sulla torta è stata il fatto che, con questa azione eclatante, i palestinesi sono riusciti a riportare prepotentemente sulle agende della geopolitica internazionale la questione della “Palestina”. In molti infatti si erano illusi che il movimento nazionalista palestinese (non importa se di ispirazione islamica o “laica”) si fosse piegato alla realtà dello “status quo” ed alla “logica dei bantustan” de facto propugnata da Netanyahu e dalla quasi totalità dei membri del suo governo. Niente di più falso! Il 7 e l’8 di ottobre il Mondo ha dovuto prendere atto che esiste un “popolo” che vuole costituirsi in “nazione” e che, animato tanto dal fanatismo quanto dalla disperazione, ha rivendicazioni nazionali reali da presentare all’agenda delle grandi potenze ed è disposto a ricorrere anche agli atti di violenza più inaudita pur di imporre il proprio punto di vista all’attenzione della Comunità Internazionale, la quale a questo punto non ha più alibi.

Andando a sviscerare poi la questione dell’inaudita violenza, l’autore della presente analisi, come gran parte dell’opinione pubblica mondiale, è rimasto sconvolto dalle scene terribili che i media ci hanno restituito dall’area dello Stato d’Israele soggetta all’invasione degli armati palestinesi. L’opinione pubblica mondiale, a volte distratta dallo scorrere degli eventi così come dai rigurgiti di un antisemitismo sovente assai mal celato, non può e non deve dimenticare gli spaventosi massacri avvenuti in località prima del tutto sconosciute ai più quali Yad Modechai, Netiv HaAsara. Nir Am, Kfar Aza, Be’eri, Nir Oz, Holit e persino nelle città di Sderot, Netivot ed Ofakim così come l’autentico carnaio dei giovani partecipanti al festival musicale di Re’im. Tuttavia, l’enorme capitale di simpatia e supporto politico e popolare che Israele è riuscita ad ottenere in quel frangente è stato drammaticamente ed inesorabilmente dilapidato dalla ferocia con la quale le IDF hanno reagito nelle settimane seguenti, trasformando un’operazione militare volta a reprimere i movimenti militanti palestinesi (Hamas in primis) in una mattanza della popolazione civile palestinese se possibile ancora peggiore di quella subita prima dagli israeliani.

9 OTTOBRE-OGGI: “GAZA, LAST BLOOD”

A quanti mi chiedono oggi che tipo di scenario si stia presentando nella selvaggia battaglia urbana che si sta svolgendo (al netto di pause umanitarie e tregue momentanee) a Gaza, io rispondo che, per averne una sorta di vaga rappresentazione, non sarebbe una cattiva idea guardare il film del 2019 “Rambo: Last Blood”, ultimo film della fortunata serie cinematografica “Rambo”, avente come protagonista l’attore italo-americano di origini ebraiche Sylvester Enzio Stallone. Lasciando perdere la trama e la valutazione della pellicola dal punto di vista stilistico e cinematografico, “Rambo: Last Blood” ha il merito di dare una rappresentazione intelligente, per quanto approssimativa ed a tratti assai truculenta, del concetto di “guerra asimmetrica” che proprio in questo momento storico i palestinesi stanno portando avanti contro le truppe israeliane tra le macerie di Gaza City e tra i tunnel situati al di sotto di essa.

Già a partire dal 7 di ottobre, e continuando fino al 26 di ottobre, le Forze Aerospaziali Israeliane (la IASF), successivamente coadiuvate anche dalla Marina e dall’artiglieria hanno portato avanti una mastodontica campagna di bombardamento contro tutto il territorio della Striscia di Gaza, in particolare ai danni di Gaza City, ritenuta il cuore pulsante ed il simbolo dell’autorità di Hamas nel territorio. A titolo esemplificativo basterà ricordare, per esempio, che il numero di sortite effettuato a cadenza giornaliera dalla IASF nel corso della prima settimana di guerra è stato di 500-600, per poi stabilizzarsi su una media di 300 dalla seconda settimana sino ad oggi. Durante i primi 6 giorni di guerra la IASF ha sganciato un totale di oltre 6.000 ordigni mentre se allarghiamo l’orizzonte alle prime due settimane del conflitto, il tonnellaggio complessivo di bombe sganciato sull’area delle operazioni è stato equivalente a quello rilasciato congiuntamente da americani e britannici sulla città di Dresda nel febbraio del 1945.

L’obiettivo di questa vasta campagna di bombardamenti è stato l’infrastruttura logistica (in particolare i tunnel sotterranei) costruita da Hamas e dagli altri gruppi armati palestinesi nel corso dei decenni (una stima israeliana di inizio guerra affermava che solo sotto la parte nord della Striscia vi fosse un groviglio di tunnel lungo nel complesso oltre 500 chilometri!). Tuttavia non è un segreto per nessuno ormai il fatto che, contrariamente a quanto avvenuto per gli altri conflitti che nel corso degli anni hanno opposto Israele ad Hamas, nel presente momento storico le cosiddette “regole d’ingaggio” siano state rilassate ad un livello tale da risultare completamente irrilevanti, ed i vertici politici e militari israeliani siano sostanzialmente insensibili alle perdite sofferte dai civili palestinesi (rei ai loro occhi di appoggiare Hamas e quindi meritevoli di una “punizione collettiva” nel più puro stile dell’Antico Testamento) che ormai si contano nell’ordine delle decine di migliaia. Ingentissimo è poi il danno al patrimonio edilizio. Anche qui a titolo esemplificativo basterà ricordare che, secondo le stime fornite dall’ONU, nei primi 10 giorni di guerra i bombardamenti avevano causato la distruzione od il danneggiamento del 20-25% degli edifici di Gaza City.

Sul terreno gli israeliani hanno passato la prima settimana di guerra impegnati nell’arduo compito di “ripulire” dai miliziani palestinesi quell’ampia fetta di territorio occupato dai nemici nel corso dei primi due drammatici giorni di guerra, evacuando nel contempo non meno di 500.000 abitanti dalla medesima area. Il periodo tra il 13 ed il 26 di ottobre ha visto una lunga fase preparatoria seguita poi, dal 27 di ottobre in poi, dalla tanto annunciata operazione di terra, fino a questo momento confinata nell’area a nord del cosiddetto “wadi Gaza”, un torrentello che divide la parte nord-orientale della Striscia (e comprendente anche Gaza City) dal resto del territorio. Nei giorni preliminari allo scattare della fase terrestre dell’operazione “Spade di Ferro” (così si chiama ufficialmente l’operazione militare), gli israeliani avevano concentrato attorno alla Striscia non meno di 120.000 uomini (su 530.000 tra professionisti, coscritti e riservisti attualmente sotto le armi). In realtà pare che gran parte di essi sia stata fino ad oggi utilizzata essenzialmente per “presidiare il territorio”, perché l’attacco vero e proprio è stato sferrato solamente da 20.000 soldati, poi divenuti 30.000 con il procedere dell’offensiva; un numero comunque assolutamente insufficiente (pur appoggiato da una sbalorditiva potenza di fuoco) se rapportato all’obiettivo sottomettere e presidiare tutta la Striscia di Gaza.

Analizzando i filmati e le foto provenienti dall’area di guerra è emerso che la condotta delle truppe israeliane dal punto di vista operativo non è stata per niente esente da pecche. Spesse volte i soldati di Gerusalemme hanno fatto avanzare le loro colonne corazzate fino al limitare degli agglomerati urbani, o in zone caratterizzate da fitta vegetazione, senza che i mezzi godessero di un adeguato supporto di fanteria con la conseguenza che i miliziani palestinesi hanno potuto ingaggiarli in brevi ma violentissimi scontri ravvicinati nel corso dei quali gli insorti hanno sparato a bruciapelo le loro granate anticarro come lo Yasin, il Tandem-85 e lo Yasin-105 nei punti più scoperti dei mezzi avversari, vanificandone sia l’imponente corazzatura che i sistemi di protezione attiva come il Trophy[2]. Dati filtrati dal campo di battaglia e risalenti al periodo della guerra antecedente la tregua, proclamata il 24 di novembre e conclusasi il 30 di novembre, parlano di 335 mezzi corazzati israeliani di tutti i tipi distrutti, gravemente danneggiati o comunque messi fuori combattimento e quindi tolti dalla linea di battaglia. Si tratta di numeri importanti se si considera che il corpo corazzato israeliano prima dell’inizio della guerra poteva contare, tra la prima linea e la riserva, su ben 10.000 mezzi.

Se le minacce del Ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, si dovessero concretizzare ed il conflitto dovesse durare con la stessa intensità di prima per altri due mesi, allora entro l’inizio di febbraio del 2024 gli israeliani rischierebbero di ritrovarsi con ben 1/10 dei loro mezzi corazzati fuori dai giochi; ed il tutto per sottomettere un territorio di 365 chilometri quadrati! Certamente, si può cercare di vedere il bicchiere mezzo pieno e fare affidamento sulle dichiarazioni delle IDF le quali hanno affermato che sino ad ora sono stati uccisi “centinaia” di miliziani e distrutti non meno di 400 tunnel, ma l’intero processo è stato tutt’altro che indolore.

Dall’inizio della guerra ad oggi, infatti, tra soldati, poliziotti ed agenti dello Shin Bet/Shabak, gli israeliani hanno ammesso di aver perso poco meno di 500 uomini in divisa. Naturalmente, contando le cifre assolute, sembrerebbe poco, ma non bisogna dimenticare che la società israeliana si è sempre dimostrata assai refrattaria a sostenere pesanti perdite in termini di vite umane in guerra ed in ogni caso bisogna tenere conto del fatto che il numero dei morti è accompagnato da un numero di feriti che è tra le 7,5 e le 10 volte superiore e che finisce anch’esso per incidere negativamente sul rendimento delle unità. Per ridurre le ricadute politiche di un conflitto che lo vede già in una posizione assai traballante, Netanyahu ha deciso di risparmiare per quanto possibile i riservisti dal venire spediti nel tritacarne di Gaza affidando invece il compito di guidare l’assalto alle unità d’élite composte da professionisti e coscritti a ferma lunga (4 anni contro i canonici 2/3) ma la disponibilità numerica di questi corpi non è infinita.

Analizzando foto e video provenienti dal teatro delle operazioni militari è stato possibile confermare che Gerusalemme ha schierato elementi provenienti dagli “Tzahanim” (i paracadutisti) della 35a Brigata, ma anche la fanteria pesante della Brigata Golani, della Kfir, della Givati e della Nahal. Le forze corazzate israeliane (Heil HaShiryon) sono rappresentate da gruppi di battaglia tratti un po’ da tutte le loro unità, come la 7a Brigata Corazzata “Saar-me Golan”, la 188a Brigata Corazzata “Barak”, la 401a Brigata Corazzata “I’kot HaBarzel” e persino la 460a Brigata Corazzata da addestramento “Bnei Or” (quest’ultima ha svolto un ruolo fondamentale nel corso dei primi due giorni di guerra quando i suoi uomini, appoggiati da un pugno di vecchi carri armati Merkava II, hanno contribuito ad arginare l’offensiva palestinese in un momento cruciale). Assai più discutibile è invece la presenza degli operatori delle forze speciali, sia quelli inquadrati nella 89a Brigata Commando (formata da: Unità 212-Maglan, Unità 217-Duvdevan ed Unità 621-Egoz), sia nelle varie unità da ricognizione (Sayeret Matkal, Shayetet 13, Sayeret Shaldag, Sayeret Yahalom, ecc…), i quali, anziché venire utilizzati nel loro ruolo consono, stanno venendo letteralmente “sprecati” nel ruolo di fanteria di supporto per i mezzi corazzati (proprio per non dover mandare in combattimento i riservisti!).

Se da un lato l’eccezionale protezione della quale godono i mezzi corazzati israeliani e l’addestramento di prim’ordine di tutte le unità d’élite sopra menzionate ha permesso ad Israele di contenere il livello delle perdite, dal punto di vista qualitativo esse sono state tutt’altro che trascurabili e, se il tritacarne della Striscia di Gaza dovesse protrarsi indefinitamente per mesi venendo contemporaneamente replicato anche al confine tra Israele e Libano, sulla falsariga di quanto avvenuto nel 2006, allora potrebbero sorgere dei non trascurabili grattacapi per Gerusalemme. Ad oggi tutti gli attori in gioco sono riusciti negli equilibrismi di mantenere il conflitto limitato ed “entro un accettabile livello di violenza”, ma le cose potrebbero cambiare tra 2-3 mesi. Per esempio quando gli americani saranno costretti a ritirare per ovvie ragioni logistiche i gruppi da battaglia della portaerei USS Gerald R. Ford (CVN-78) e USS Dwight D. Eisenhower (CVN-69) che incrociano rispettivamente nel Mar Mediterraneo e nel Golfo Persico. Oppure quando il livello di scorte di guerra diventerà pesantemente basso da non poter più garantire lo stesso mantenimento del volume di fuoco (anche in questo caso, esattamente come l’Ucraina, Israele ha dovuto rivolgersi in regime emergenziale agli Stati Uniti, i quali stanno fornendo tonnellate di proiettili d’artiglieria da 155 mm, circa 1.000 Small Diameter Bomb per la IASF ed un numero imprecisato di missili intercettori Tamir utilizzati dai complessi Iron Dome, ma anche nel caso israeliano, come in quello ucraino, il sostegno americano non può protrarsi in maniera indefinita, specialmente alla vigilia di un anno elettorale!).

Insomma, indipendentemente dal punto di vista che si vuole adottare, e lasciando da parte l’effetto che questa guerra sta avendo sull’economia israeliana, già sull’orlo della crisi alla vigilia del precipitare degli eventi ed ora decisamente sotto stress, e dimenticandoci per un momento della possibilità che il tutto degeneri in una grande conflagrazione regionale, possiamo razionalmente concludere che, alla fine della fiera, il tempo giochi a sfavore di Israele. E proprio in questo senso vanno, a modesto parere dello scrivente, interpretate le recenti esternazioni del presidente degli Stati Uniti d’America, Joseph Robinette “Joe” Biden Junior, il quale ha affermato che “la continuazione della guerra favorisce Hamas”. Molto probabilmente sia lui che il cerchio magico composto dai consiglieri che gli stanno intorno hanno capito che l’attrito provocato dal conflitto ed il cambiamento nell’atteggiamento dell’opinione pubblica in Israele ed a livello mondiale sta facendo mutare il corso della marea a favore dei palestinesi.

Netanyahu e gli altri esponenti della destra nazionalista ed ultrareligiosa attualmente al potere non ammetteranno mai che già ora Israele ha perso la guerra. Il massimo che possono fare è, dal lato diplomatico, di continuare a manipolare il sostegno degli USA e dell’Occidente allargato per non essere messi all’angolo in sede internazionale e, sul campo, di insistere con la pressione militare come è stato fino ad ora nella speranza che si giunga ad un cedimento dei palestinesi e ad una totale occupazione della Striscia di Gaza (e se ciò non dovesse avvenire, farebbero la figura dei polli a livello internazionale), ma si tratta comunque di un mero palliativo atto a prendere tempo dato che l’occupazione indefinita di 2.500.000 palestinesi estremamente ostili ad Israele risulterebbe semplicemente ingestibile nel lungo periodo e contribuirà ad accelerare ulteriormente il processo di drenaggio delle risorse economiche e morali sulle quali si sostiene la società israeliana, specialmente nella sua componente più laica.

Dall’altra parte, il “fronte avverso” ad Israele ha già vinto questa battaglia. Sauditi, qatarioti, emiratini e tutti gli altri “fratellini del Golfo” stanno vedendo ridimensionato il peso dello Stato Ebraico nel Medio Oriente. L’Iran sta assistendo alla progressiva scomparsa di un pericoloso nemico e può meglio prepararsi a quello che sarà il conflitto finale con la Turchia per il dominio sul mondo islamico mediorientale mentre gli Hezbollah, gli Houthi e le milizie sciite filo-iraniane in Siria ed Iraq si stanno dimostrando delle preziosissime pedine di pressione e di proiezione regionale. I palestinesi, non importa se favorevoli ad Hamas o agli altri gruppi militanti sono riusciti, a partire da una posizione di chiaro svantaggio, ad infliggere agli israeliani una sconfitta dalla quale probabilmente non si risolleveranno mai più nel prestigio ed hanno ricordato una volta ancora alla Comunità internazionale che le guerre tra Israele e “Palestina” non sono ancora finite.


N.B. L’autore della presente analisi desidera ringraziare il dott. Paolo Silvagni per il costante e sempre utile scambio di vedute.


FONTI E CITAZIONI

[1] – Alessandro Turrini, “Gli Squali dell’Adriatico – Monfalcone e i suoi sommergibili nella storia navale italiana”, Vittorelli Edizioni, 1999, pagina 48.

[2] – Andrea Gaspardo, “Yasin-105: la nuova arma controcarro di Hamas”, www.analisimilitare.it, 26/11/2023.

Una risposta

  1. Molto, molto bravo. Alla fine lo scontro è in medio oriente tra l’impero turco e gli eredi di Zoroastro.

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