Nikolaj Pirogov è stato uno dei grandi padri della medicina militare, equiparabile a figure del calibro Antonio Scarpa, Giovanni Maria Brambilla e Jean Dominique Larrey. Ma, rispetto a questi ultimi, ebbe semmai il grande merito di fungere da ponte culturale e tecnico-scientifico tra il più moderno Occidente e la medicina praticata nell’impero zarista russo.
Nonostante questo, sebbene in madre patria venga ancora oggi considerato uno dei più grandi medici, se non il più grande, della Storia zarista, riconoscendone meriti e gesta, la sua figura rimane in Occidente a volte involontariamente adombrata.
Molte delle sue scoperte e intuizioni epocali, proprio in virtù delle condizioni non idilliache (eufemisticamente parlando) in cui versava l’impero zarista nell’ambito medico-sanitario di metà Ottocento, debbono essere rivalutate in positivo, rappresentando vero e proprio motore per lo sviluppo della medicina in terra zarista.
Nikolaj Pirogov, un mago dell’anatomia
Nikolaj Pirogov si laurea in medicina all’università di Mosca all’età di solo diciassette anni: un unicum, considerando il fatto che era proibito accedervi prima dei sedici anni compiuti per legge. In effetti si racconta come attraverso un piccolo escamotage, mentì sulla sua età, entrando come studente presso l’ateneo all’età di soli quattordici anni compiuti.
Il livello di istruzione medico-scientifica a Mosca era piuttosto basso e si narra come allora, molti professori preferissero preghiere e pellegrinaggi come cure terapeutiche, piuttosto che l’uso della chirurgia e della medicina che, intanto, nell’Europa continentale, stava sviluppandosi esponenzialmente. Il giovane chirurgo poco incline a queste pratiche, decise, ottenuta la laurea, di guardare all’estero e proseguire la sua formazione proprio in Europa, con lo scopo di vedere migliorate le proprie conoscenze anatomiche.
Si trasferì così all’Università di Tartu, sotto la supervisione del professor Moier, allievo di Antonio Scarpa. Con le prime dissezioni e lo studio dei campioni conservati in alcool, l’amore per l’anatomia non lo abbandonò più. Apprendendo le tecniche presenti nei vari stati europei, alla ricerca di nuove e migliori conoscenze anatomiche, si racconta che nell’arco della vita Nikolaj Pirogov abbia compiuto più di undici mila dissezioni su cadavere, sia in giro in Europa che a San Pietroburgo, dove divenne professore. Dal Charitè di Berlino fino a Parigi, le sue conoscenze in merito alle tecniche di dissezione migliorarono enormemente.
Proprio a San Pietroburgo le sue ricerche in anatomia topografica raggiunsero il punto più alto: con l’intuizione di utilizzare il freddo inverno russo a proprio vantaggio, realizzò sezioni congelate dei cadaveri che gli consentirono di produrre oltre 224 illustrazioni anatomiche tra il 1852 e il 1859. Proprio tra queste tavole fu il primo nella Storia ad identificare un recesso del collo ancora sconosciuto, delimitato superiormente dal nervo Ipoglosso e ribattezzato in suo onore “Triangolo di Pirogov”.
Queste conoscenze anatomiche contribuirono a renderlo un grande chirurgo, apprendendo le tecniche in Occidente, prendendo il meglio da ogni sua esperienza, con la possibilità di integrarle e personalizzarle, sia sulle proprie capacità che sulle condizioni in cui versava la maggior parte degli ospedali russi. Fu forse questo uno dei grandi meriti del chirurgo militare russo, quello di portare, una volta rientrato in patria, modalità e tecniche allora sconosciute, trainando la medicina russa alle moderne tecniche europee.
Un maestro della chirurgia al servizio dell’esercito
Nel corso della sua carriera incrociò numerosi conflitti, finendo spesso per lavorare nelle tende da campo oppure nelle strutture che venivano straordinariamente adibite per accogliere e curare i feriti. Proprio nelle condizioni più disagiate, in termini di strumenti e spazi a disposizione che Nikolaj Pirogov, rimboccandosi le maniche, in un mix tra inventiva e applicazione ponderata delle tecniche apprese in Occidente, e tirando fuori dal cilindro soluzioni nuove e rivoluzionarie.
Questo non deve sorprendere: la guerra rappresenta uno dei drammi più grandi dell’essere umano, spingendolo al limite delle proprie capacità fisiche e mentali e lottando a tu per tu, quotidianamente, con la morte. Di fronte alle centinaia di feriti nei campi di battaglia, che urlano straziati dal dolore, anche medici e infermieri (ma anche banalmente soccorritori del caso) se decidono di accogliere queste richieste di aiuto, fanno leva su conoscenze apprese nelle esperienze precedenti, ma anche su inventiva e intuizioni, che, non di rado, si traducono in geniali scoperte.
L’uomo prima del soldato: l’eterizzazione e l’uso dei gessi
“Per la prima volta le operazioni si sono svolte senza i gemiti e le urla dei feriti. L’effetto più consolante dell’eterizzazione è stato che le operazioni da noi eseguite in presenza di altri feriti
non li spaventavano, ma, al contrario, li rassicuravano”.
Con queste parole Nikolaj Pirogov descriveva entusiasta l’uso di anestesia nei feriti in campo di battaglia, l’eterizzazione, proprio in Italia, durante la battaglia di Solferino. Concepì il peso psicologico di tale trattamento, che da qualche anno si stava facendo largo in Europa, in grado non solo di rendere il paziente in grado di soffrire di meno, ma anche di rassicurarsi di fronte all’operazione chirurgica. L’uso dell’etere nei campi di battaglia permetteva di accettare di miglior grado le cure da parte dei soldati, garantendo una maggiore fiducia nei confronti dei medici che li avrebbero assistiti e operati.
Un aspetto che non era di secondo piano per il chirurgo russo che aveva qualche mese prima perso la moglie a causa di una meningite fulminante. Mettendo ai primi piani la qualità della vita del paziente, il chirurgo russo tarava spesso le sue scelte cliniche e chirurgiche tra le possibilità di peggioramento e quelle di recupero e non si limitava alla semplice applicazione di una chirurgia demolitiva che sì salvava il paziente dal rischio di vita, ma lo avrebbe reso mutilato per sempre.
Ad esempio introdusse l’uso di gessi come forma di trattamento conservativo, volto a tutelare l’arto dei pazienti e dei soldati che troppo spesso e in maniera indiscriminata, venivano amputati. La innovativa svolta di Pirogov ricevette numerose critiche, rappresentava un unicum in una chirurgia che vedeva spesso nella forma demolitiva l’unica soluzione per ovviare alla morte per sepsi del paziente.
L’organizzazione sanitaria tramite il triage
L’idea del triage non proviene da Nikolaj Pirogov, origina in effetti dalle idee di un altro grande della medicina militare Jean Dominique Larrey, che vide nella organizzazione e classificazione dei malati feriti in base alla gravità del danno, uno strumento in grado di migliorare l’efficacia delle cure e il tasso sopravvivenza degli stessi. Il merito di Pirogov fu semmai quello di implementare questa intuizione e di calarla nella realtà delle guerre di metà e fine Ottocento.
Strutturò il modello di triage in livelli di gravità, differenziando, a priori, i possibili soldati con ferita già infetta rispetto a quelli ancora “non suppuranti”. Più la gravità della ferita era elevata, più dovevano essere allontanati dal campo di battaglia, una volta finito il conflitto a fuoco. I quattro livelli di gravità distinguevano:
– Una forma di ferite lievi in cui i soldati, in grado di deambulare autonomamente, si spostavano nelle postazioni di ricovero più vicine al campo di battaglia.
– I feriti che necessitavano di operazioni chirurgiche non immediate che sarebbero stati operati in un arco temporale variabile da uno a tre giorni.
– I feriti che necessitavano di operazioni chirurgiche immediate.
– I soldati che avrebbero avuto poche speranze di sopravvivere che sarebbero stati affidati a infermieri e preti ed infine trasferiti negli ospedali da campo più lontani dai campi di battaglia.