La sfida del Pacifico

Introduzione

Mentre in Europa si combatte la guerra russo-Ucraina e in Medio Oriente si riaccende il conflitto israelo-palestinese, l’attenzione delle maggiori potenze del pianeta è concentrata altrove. Da tempo gli USA hanno deciso di spostare il loro focus strategico sul Pacifico per contenere e contrastare il potere crescente della Repubblica Popolare Cinese, che ambisce a diventare la prima potenza mondiale. La crescita della Cina è stata rapidissima, tanto da sopravanzare la Russia come seconda economia globale. Anche i comparti industriale e militare sono cresciuti di conseguenza: oggi le Forze Armate cinesi sono equipaggiate in gran parte con armi e mezzi di produzione nazionale, incluse Marina e Aeronautica, che per anni hanno impiegato materiali russi o derivati da essi per reverse engineering.

Pechino non fa mistero dei suoi disegni egemonici, nella consapevolezza che finiranno per scontrarsi con gli interessi americani. I progetti geopolitici cinesi presentano una doppia faccia: da un lato l’espansione amichevole attraverso la Belt and Road Initiative (la famosa Via della Seta) e gli investimenti esteri, dall’altro varie rivendicazioni territoriali portate avanti con accenti spesso aggressivi, con il supporto di una Marina Militare in continua crescita quantitativa e qualitativa.

Taiwan è la questione politico-strategica più importante e si trascina dalla fine degli anni ’40. Per Pechino la perdita dell’isola è un vulnus gravissimo e la sua riconquista è una priorità assoluta di cui non fa mistero; se non fosse che Taiwan è spalleggiata da un peso massimo: gli Stati Uniti. Washington ha sempre difeso l’indipendenza dell’isola ma ha anche dosato con cura le sue azioni per non irritare troppo la Cina, per esempio riconoscendo la Repubblica Popolare come “unica Cina” e scoraggiando Taiwan dal dichiarare formalmente l’indipendenza. Tutto questo perché nessuno vuole davvero una guerra che, se dovesse scoppiare, sarebbe molto sanguinosa.

Finora la Cina è stata contenuta con la deterrenza, ottenuta attraverso massicci investimenti militari da parte di Taipei oltre che con l’alleanza di Washington. Tuttavia la crescita militare cinese e i toni sempre più alti di Pechino fanno temere un prossimo scontro attorno all’isola; uno scontro potenzialmente ad altissima intensità che coinvolgerà altri attori della regione e il cui esito potrebbe cambiare gli equilibri geopolitici del mondo.


Parte I – La situazione politico-strategica

Il contrasto tra Cina e Taiwan

La Repubblica Popolare Cinese (People’s Republic of China, PRC), che chiameremo Cina per brevità, considera Taiwan una semplice provincia ribelle che andrà riunificata alla madrepatria entro il 2049, centenario della fondazione della PRC, preferibilmente in modo pacifico ma se necessario anche con la forza. Secondo alcuni osservatori, la riunificazione potrebbe accadere molto prima.

La Repubblica di Cina (Republic Of China, ROC), che chiameremo Taiwan per brevità, era nota ai tempi della colonizzazione portoghese come Formosa. Si considera ancora il governo legittimo di tutta la Cina ed è un Paese indipendente de facto, ma non ha mai dichiarato la sua indipendenza per salvaguardare la forma nei rapporti con Pechino (che alla forma tiene molto).
Per etnia, lingua e tradizioni culturali, gli abitanti che vivono ai due lati dello stretto di Taiwan (o stretto di Formosa) non sono molto dissimili gli uni dagli altri. In compenso le due nazioni sono agli antipodi sotto diversi punti di vista: da un lato abbiamo una dittatura comunista che occupa un enorme territorio continentale popolato da 1.400 milioni di abitanti, di cui 2 milioni in uniforme; dall’altro abbiamo una democrazia compiuta che governa un’isola di 36.000 km2 (più o meno come Lazio, Umbria e Marche messe assieme) abitata da 24 milioni di persone, di cui 200.000 in uniforme. Ovviamente i due diversi sistemi politici hanno plasmato a cascata le rispettive società, creando ulteriori differenze riguardo agli stili di vita, alla gestione dello Stato e all’assetto economico-industriale. In ogni caso buona parte della vita politica, economica, sociale e culturale di Taiwan è definita dai rapporti, storicamente non facili, con la Repubblica Popolare.

La tensione tra Cina e Taiwan è ben nota ed è il risultato di una lunga e complessa storia di conflitto politico e rivalità nazionali. Tutto iniziò con la guerra civile al termine della Seconda Guerra Mondiale, quando il Partito Comunista Cinese (PCC) guidato da Mao Zedong e i nazionalisti del Kuomintang (KMT) guidati da Chiang Kai-shek si scontrarono per aggiudicarsi il controllo del Paese. Il PCC uscì vincitore dalla guerra civile nel 1949 e costrinse Chiang Kai-shek a ritirarsi sull’isola di Taiwan assieme a ciò che restava di aviazione e marina. Questo portò alla creazione della Repubblica Popolare Cinese sulla terraferma con capitale Pechino e della Repubblica di Cina sull’isola di Taiwan con capitale Taipei, con entrambi i governi che rivendicavano (e rivendicano ancora oggi) di essere l’unico governo legittimo dell’intera Cina. Si noti che non è mai stata siglata una pace tra PCC e KMT quindi la guerra civile non si è mai formalmente conclusa.

Le differenze ideologiche non potrebbero essere più evidenti: la Repubblica Popolare Cinese è governata da sempre dal PCC e s’identifica da sempre come uno stato socialista, mentre Taiwan ha compiuto un’importante transizione dal regime nazionalista post-guerra civile[1] a una repubblica multipartitica di stampo occidentale. Si tratta di due importanti attori economici a livello internazionale, sebbene su scala evidentemente diversa; si fronteggiano dal punto di vista commerciale e tecnologico oltre che politico e diplomatico, ma allo stesso tempo intrattengono complesse relazioni economiche. In altre parole: non rinunciano a fare affari nonostante siano nemici giurati.

Pechino ha costantemente affermato la volontà di riunificare Taiwan con la Cina continentale, anche con la forza se necessario. Taiwan, d’altro canto, ha difeso tenacemente la sua indipendenza e ha cercato il riconoscimento internazionale come nazione separata e indipendente. Ad oggi solo la Repubblica Popolare Cinese è riconosciuta come Cina e ha un seggio all’ONU[2], mentre Taiwan è riconosciuta formalmente solo da una dozzina di nazioni minori; ciò detto, Taiwan intrattiene relazioni non ufficiali con una quantità di Paesi attraverso uffici di rappresentanza che fungono da ambasciate de facto. Si tratta di un segreto di Pulcinella ben noto a Pechino, che fa finta di non vedere purché la forma sia salva.

Dal punto di vista militare, l’alleato più importante di Taiwan sono certamente gli Stati Uniti che hanno riconosciuto formalmente la Repubblica Popolare come Cina ma, allo stesso tempo, hanno sostenuto l’autonomia di Taiwan fornendo armi e supporto politico. Per la Cina tale alleanza rappresenta il più grande ostacolo da affrontare per la conquista di Taiwan, senza contare che altri Paesi della regione potrebbero prendere parte alla partita per assestare un colpo ai sogni egemonici cinesi.

Taiwan è importante perché rappresenta il “Rubicone del XXI secolo”: oltrepassarlo potrebbe cambiare gli equilibri mondiali e dare forma a un nuovo assetto geopolitico del pianeta. Per la Cina, attaccare Taiwan significa mettere alla prova la coalizione che tenta di contenere la sua ascesa al dominio dell’Asia, forse del mondo; conquistare l’isola assesterebbe un colpo micidiale agli Stati Uniti e ai loro alleati. Viceversa, se gli Stati Uniti riuscissero a difendere Taiwan colpirebbero al cuore le ambizioni egemoniche di Pechino e riaffermerebbero la propria primacy mondiale. Quindi l’importanza di Taiwan va ben oltre le sue famose industrie di microprocessori[3], anche perché sarebbero autodistrutte al primo segno d’invasione.
Questo spiega perché gli aiuti militari americani all’Ucraina siano stati così scarsi e irregolari: se Washington avesse concesso a Kiev centinaia di caccia, HIMARS e carri armati la guerra avrebbe preso una piega ben diversa, ma si sarebbe privata di risorse importanti da impiegare in caso di confronto diretto con la Cina. Inoltre, se lo Zio Sam fosse intervenuto con tutto il suo peso a difendere l’Ucraina, l’Europa non avrebbe avvertito la stessa pressione ad investire sulla propria sicurezza.

Nel 2022 il Dipartimento della Difesa USA ha pubblicato il documento “National Defence Strategy” in cui si indica la Cina come minaccia numero uno e l’Indo-Pacifico come quadrante prioritario. La minaccia russa all’Europa, nonostante la guerra russo-ucraina in corso, è lasciata in secondo piano. Il fatto che l’imperialismo russo si sia manifestato così violentemente ha comunque svegliato gli europei che, pare, hanno intrapreso sforzi per darsi uno strumento militare più sostanzioso.
Anche la NATO ha fatto propri i concetti americani nonostante la Cina si trovi ben lontana dalla zona nordatlantica “di competenza”, questo perché è stato compreso e accettato che il mondo sta tornando ad essere bipolare e i vari Stati sono chiamati a scegliere da che parte stare; scelta non scontata visto che i legami economici, commerciali e finanziari del mondo moderno non sempre rispettano confini e alleanze. Dal punto di vista militare invece la scelta è più semplice e l’appoggio fornito dalla Cina alla Russia, per quanto indiretto, aiuta a decidere “da che parte stare”. Gli europei in particolare hanno capito che il commitment americano in Europa non può che calare e quindi allinearsi con le priorità degli Stati Uniti permetterà di continuare a beneficiare del loro “ombrello”, almeno in parte.

Giro del vicinato

Diamo un rapido sguardo ai Paesi vicini alla Cina per capire velocemente come si posizionano rispetto a Pechino.

  • Corea del Sud. Troviamo varie basi americane con 22.000 uomini e un regime democratico alleato degli Stati Uniti da decenni. Seoul ha il problema fondamentale di contenere la Corea del Nord ma guarda con sospetto anche la Cina, i cui legami con Pyongyang sono ben noti. Il fatto che la Corea del Sud voglia dotarsi di una portaerei e che abbia accelerato sviluppo e produzione del nuovo caccia KF-21 la dice lunga sulle preoccupazioni coreane.
  • Giappone. Anche qui troviamo varie basi americane sparse sul territorio con un contingente di circa 50.000 uomini. L’isola di Okinawa, su cui sorgono alcune basi che ospitano circa la metà dei soldati americani, dista 700 km da Taiwan ma altre isole si trovano a soli 100 km. A Tokyo c’è una crescente preoccupazione per le rivendicazioni cinesi sulle isole Senkaku; le isole Ryukyu, collocate subito a nord-est di Taiwan, sarebbero direttamente minacciate in caso di perdita delle Senkaku e della stessa Taiwan. Questo spiega il riarmo giapponese in corso.
  • Vietnam. Nonostante sia retto da un regime comunista e la Cina sia il primo partner commerciale, le dispute sul Mar Cinese Meridionale hanno portato ad un progressivo incrinarsi dei rapporti. Nello storico dei due Paesi troviamo una breve guerra combattuta nel 1979 e vari contenziosi per alcune isolette nel Mar Cinese Meridionale, tra cui le Spratly, con vari episodi di scontri a fuoco e affondamenti di pescherecci. Sentendo la sua sovranità e integrità territoriale minacciati dall’assertività cinese, il Vietnam si è sorprendentemente riavvicinato agli Stati Uniti per iniziare una cooperazione militare e industriale.
  • Filippine. È un Paese storicamente allineato con gli Stati Uniti cui ha concesso un numero crescente di basi sul proprio territorio in seguito alle rivendicazioni territoriali cinesi sul Mar Cinese Meridionale. Famoso il caso dell’atollo di Scarborough, un affioramento di rocce molto pescoso in territorio filippino di cui i cinesi hanno assunto il controllo creando una barriera fatta d’imbarcazioni ancorate tra loro. Nonostante un arbitrato internazionale abbia dato ragione alle Filippine, Pechino non ha accettato il verdetto e continua ad affermare aggressivamente il suo controllo sull’atollo. Non sorprende che Manila abbia compattato i rapporti con Washington, inclusa la cooperazione militare.
  • Birmania/Myanmar. Le relazioni con la Cina sono cresciute molto con la presa del potere da parte dello State Peace and Development Council (SPDC) nel 1988, una giunta nota per le ripetute violazioni dei diritti umani. Tra i vari investimenti cinesi in Birmania, le realizzazioni più importanti sono state un gasdotto e un oleodotto che collegano il porto di Sittwe con Kunming permettendo di aggirare lo Stretto di Malacca; un elemento fondamentale del “filo di perle”, ovvero il sistema di basi e avamposti lungo le rotte marittime fondamentali per l’import-export cinese. La Cina era anche pronta a finanziare l’ampliamento del porto di Kyaukpyu e relative infrastrutture di collegamento, ma un nuovo colpo di stato nel 2021 ha messo tutto in discussione e ha portato a un riavvicinamento all’India, al Giappone e alle altre nazioni della regione per ridurre l’eccessiva dipendenza dalla Cina. La situazione comunque è molto fluida perché il Paese è nel pieno di una sanguinosissima guerra civile e tutto potrebbe cambiare al termine di essa.
  • Russia. “L’amicizia senza limiti” dichiarata con la Cina è da intendersi come “amicizia dai confini non ben definiti”. È chiaro che c’è una cooperazione nell’ottica del comune nemico americano, ma non è affatto un’alleanza. Lo si è visto in rapporto alla guerra in Ucraina: il supporto cinese ai russi è di basso profilo e il loro auspicio è che la guerra finisca presto per tornare al business as usual. A Pechino infatti ci si è resi conto che il conflitto sta danneggiando i commerci e sta impoverendo l’Europa, uno di loro mercati principali.
  • Corea del Nord. È l’unico Paese “non-nemico” ma i cinesi si fidano poco di loro: è pur sempre un Paese dotato di testate atomiche in mano a un’opaca dittatura militarista. Tuttavia il regime di Pyongyang è sempre meglio di una Corea riunificata filoamericana; per questo la Cina continua a “tollerarlo” e ad usarlo come pedina, per esempio per far arrivare aiuti alla Russia.

Andando un po’ più lontano vale la pena di citare:

  • India. Si tratta di un Paese che gioca su più tavoli, molto difficile da inquadrare. È membro del BRICS assieme alla Cina ma non è affatto amica dei cinesi; guardie di confine indiane e cinesi si sono ammazzate a bastonate sul confine conteso dell’Himalaya nel 2020, tanto per dire. L’India fa parte del QUAD con USA, Giappone e Australia per realizzare il contenimento marittimo della Cina, ma non è alleata degli americani. I rapporti con la Russia sono discreti e c’è una storia di accordi e forniture militari con Mosca.
  • Pakistan. I rapporti con la Cina sono buoni, c’è una storia di cooperazione industriale, militare ed economica che include la ben nota base navale di Gwadar, un’altra delle “perle” da cui parte un sistema di strade e ferrovie che permette alla Cina d’importare petrolio dal Golfo Persico aggirando lo stretto di Malacca. È però improbabile che il Pakistan si metta apertamente contro agli USA in caso di conflitto, anche perché deve sempre guardarsi le spalle dall’India. Senza contare l’incapacità materiale di proiettare potenza così lontano.
  • Australia. Percepiscono la Cina come una minaccia strategica e hanno tutto l’interesse a contenerne i disegni egemonici. La firma del trattato di difesa militare noto come AUKUS nel 2021 aumenterà la presenza militare australiana nel Pacifico, in prospettiva anche con sottomarini nucleari; inoltre la base di Tindal nel nord dell’Australia ospiterà i bombardieri strategici B-52 dell’USAF, armabili potenzialmente con armi nucleari.
  • Iran. Il Gigante del Golfo Persico certamente parteggerebbe per i cinesi in caso di scontro con gli USA, ma il suo contributo militare sarebbe esiguo. Potrebbe minacciare i traffici navali nel Golfo ma deve fare attenzione ai suoi nemici nella Penisola Arabica e alla Quinta Flotta americana acquartierata in Bahrain.
  • Europa. Ci fidiamo sempre meno della Cina, anche perché il supporto indiretto dato alla Russia non è passato inosservato; inoltre comincia a farsi sentire il tema dei furti di tecnologia e della proprietà intellettuale. Perfino il grandioso progetto della Via della Seta (Belt and Road Initiative) che andava tanto di moda sembra essere un po’ sparito dai programmi. Per carità, il commercio con la Cina non si fermerà mai, ma sembra che il clima si sia un po’ raffreddato.
    Altro elemento interessante: comincia a vedersi un po’ di resistenza per il piano “green” dell’UE, che vorrebbe promuovere la mobilità elettrica a tappe forzate rendendoci dipendenti tecnologicamente dalla Cina (affossando parimenti l’eccellenza della nostra industria motoristica senza che l’Europa sia la grande inquinatrice del mondo!); l’approccio di Bruxelles appare poco comprensibile e molto ideologico, staremo a vedere.

Se guardiamo alla situazione cinese dal punto di vista economico, Pechino intrattiene proficui rapporti commerciali con tutti i Paesi della regione (e non solo), inclusa Taiwan. Però dal punto di vista politico la Cina è circondata da Paesi ostili (esplicitamente o implicitamente o potenzialmente ostili) e non ha dei veri alleati; l’unica eccezione è la Corea del Nord, che comunque può esprimere una potenza alquanto limitata. Come si vede dalla carta seguente, la Cina è accerchiata da un “cordone sanitario” di isole e basi che limita fortemente la libertà di movimento delle sue forze navali. Taiwan è al centro di questo “cordone”, una piattaforma ostile piena di occhi e orecchie che tengono la crescente Marina Cinese chiusa nei propri porti. In particolare, i sottomarini nucleari lanciamissili balistici (SSBN) cinesi faticano ad arrivare all’Oceano Pacifico senza essere identificati e seguiti perché sono piuttosto rumorosi; di conseguenza il deterrente nucleare cinese risulta menomato. Il primo, vero vantaggio geostrategico derivante dal controllo di Taiwan sarebbe proprio questo: l’accesso diretto alle cosiddette “blue waters”, che oggi avviene sotto le “orecchie” attente di USA, Corea del Sud, Giappone e Filippine.
Se invece guardiamo ai commerci, l’80% del commercio cinese avviene via mare. Per gli avversari di Pechino sarebbe facile ostacolare l’import di materie prime e l’export di manufatti cinesi, ovvero i tubi d’ossigeno che permettono alla Cina di prosperare. Non a caso i cinesi rivendicano qualunque scoglio possibile nel Mar Cinese Meridionale! Ma spostandoci più a sud-ovest troviamo lo Stretto di Malacca, un budello lungo 500 km su cui incombono Malesia, Indonesia e soprattutto Singapore. Anche a questo doveva servire la Belt and Road Initiative: ad aggirare almeno in parte eventuali blocchi navali che strangolerebbero Pechino.

Mappa di Limes, Laura Canali

Le rivendicazioni territoriali cinesi

Le rivendicazioni territoriali cinesi riguardano soprattutto il Mar Cinese Meridionale e ruotano attorno alla “linea dei 9 tratti” (a volte si vedono mappe con 10 tratti, ad abbracciare ben bene anche Taiwan) che da decenni provoca dispute e proteste. Le isole Spratly e Paracel sono le più famose ma la Cina rivendica per sé praticamente tutto il Mar Cinese Meridionale e, in barba al diritto internazionale, traccia sulle mappe delle linee che passano molto vicino alle coste di tutti gli altri Paesi che vi si affacciano. 

Spostandoci nel Mar Cinese Orientale, un’altra contesa importante riguarda le isole Senkaku (Diaoyu per la Cina) che fanno parte del territorio giapponese. Questo piccolo arcipelago disabitato è molto pescoso e nei suoi fondali sono state trovate ingenti quantità di gas e petrolio. Anche Taiwan avanza delle pretese sulle isole (che chiama Diaoyutai) ma la Cina è stata certamente più assertiva: per esempio, a fine 2013 Pechino ha incluso le Senkaku nella “zona d’identificazione” dell’Aeronautica Militare provocando le ire del Giappone e la reazione degli USA, che hanno mandato un B-52 a sorvolare le isole.

Elaborazione da mappa di Limes, Laura Canali

La “linea dei 9 tratti” si sovrappone grossomodo alla cosiddetta “prima catena di isole”, uno spazio marittimo che va dal Giappone alla Malesia, abbraccia il Mar Cinese Meridionale, include Taiwan, sfiora le Filippine e il Brunei (vedi mappa seguente). Per la PLAN saper operare efficacemente all’interno di questo spazio significa dare alla Cina un minimo di profondità strategica, accerchiata com’è da Paesi non-amici. All’interno della “prima catena di isole” la Marina cinese ha il compito di dissuadere gli interventi esterni, tutelare la sovranità marittima nelle aree contese e proteggere le SLOC (Sea Lines Of Communication).

La “seconda catena di isole” si protende verso il Pacifico occidentale, scende dal Giappone per toccare Guam e le isole orientali dell’Indonesia, di fronte alla costa settentrionale dell’Australia. Riuscire ad operare con mezzi aeronavali fino alla “seconda catena di isole” è un traguardo raggiunto dalla PLAN solo in anni recenti, a testimoniare la capacità tecnico-operativa di “uscire” verso il mare aperto e avvicinarsi a Guam, che dopo Pearl Harbor è la principale base americana della zona.

A proposito di Guam, questa piccola isola è territorio americano a tutti gli effetti; circa un terzo del suo territorio appartiene al Dipartimento della Difesa che vi schiera 8.000 uomini, alcuni sottomarini d’attacco (SSN) e decine di caccia e bombardieri. Guam è anche uno hub logistico di primaria importanza per rifornire le basi americane in Giappone, Corea e Filippine. Più indietro, Pearl Harbor nelle Hawaii ospita il quartier generale della Flotta del Pacifico, con 40.000 uomini e una quantità di asset navali tra cui una quindicina di sottomarini d’attacco.
A volte si parla anche di una “terza catena di isole”, molto ampia, che scende dalle Aleutine verso le Hawaii e si chiude a sud con l’Oceania; un territorio oceanico amplissimo che tra l’altro tocca molti degli interessi americani. In questa zona la Cina sta lavorando per instaurare relazioni politiche ed economiche che le permettano di sostenere varie attività marittime e proiettare la propria potenza aeronavale. Al momento operare regolarmente in questa fascia va oltre le capacità della Marina cinese, ma vista la sua costante crescita tecnico-operativa possiamo aspettarci che ne sia capace nel giro di 10-15 anni; a quel punto si potrà parlare della PLAN come di una vera e propria “blue water navy”.

Il Mar Cinese Meridionale gioca un ruolo importante in termini di sicurezza e commerci perché da esso passano delle importanti SLOC che collegano l’Asia nord-orientale all’Oceano Indiano, e quindi all’Africa e all’Europa (vedi mappa seguente). Sulle acque del Mar Cinese Meridionale viene trasportata la maggior parte del petrolio destinato alla Cina ma anche alla Corea, a Taiwan e al Giappone; tanto basta per capirne l’importanza. Inoltre sono acque molto pescose che custodirebbero ingenti riserve di idrocarburi.

Lo sa bene l’Indonesia, che nel 2019 e 2020 ha rischiato lo scontro con la Cina a causa della presenza di unità della Guardia Costiera e di pescherecci cinesi nella sua zona economica esclusiva. Negli ultimi anni la situazione è migliorata ma le preoccupazioni sulla sicurezza hanno spinto Giakarta verso Washington, tanto che l’aeronautica indonesiana riceverà 24 caccia F-15EX che si aggiungeranno ai 42 Rafale già ordinati.

In generale, i Paesi dell’ASEAN (Association of South-East Asian Nations) stanno migliorando la loro cooperazione militare e stanno ammodernando le loro dotazioni, specialmente i mezzi navali, l’aviazione marittima, i sistemi missilistici antinave e di sorveglianza; evidentemente viene percepita una minaccia reale e ci si prepara ad affrontarla, ma senza esagerare con i toni visto che la Cina investe parecchio in tutti i Paesi della regione.

La Cina rivendica la necessità di difendere le sue linee di comunicazione marittime e per questo investe tanto nella Marina (sulle portaerei in particolare), ma non basta: sono state costruite una decina di isole artificiali a uso militare, con basi aeree, radar, armi antiaeree e antinave, sistemi EW, ormeggi, depositi… e pensare che all’inizio era stato assicurato che le isole non sarebbero diventate degli avamposti militari!

In questo modo la Cina si è costruita delle bolle A2/AD (Anti-Access/Area Denial) nel bel mezzo del Mar Cinese Meridionale. Come si vede dalla mappa seguente, queste “bolle” sono collocate in una posizione molto favorevole per missioni di ricognizione e pattugliamento nella “prima catena di isole” ma anche per minacciare il fianco di un’operazione aeronavale nemica diretta dalle Filippine verso la Cina meridionale. In altre parole, sono una spina nel fianco per qualunque avversario.

Le isole artificiali sono state realizzate gettando del materiale sui bassi fondali che circondavano gli scogli, trasformandoli così in isolette via via più grandi fino a poter ospitare varie installazioni militari. Per altri dettagli e immagini sulle installazioni rimando a questo articolo di The Drive: https://www.thedrive.com/the-war-zone/chinas-manmade-island-fortresses-like-youve-never-seen-them-before

Seguono alcune immagini di isole artificiali e relative installazioni.

Fiery Cross Reef
Suby Reef
Woody Island

Differente il caso della minuscola isola (naturale) di Taiping o Itu Aba, che si trova nell’arcipelago delle Spratly ed è territorio taiwanese pur trovandosi a 1.500 km dalla madrepatria! L’isola è rivendicata dalla Cina ma anche dal Vietnam e dalle Filippine.

Taiping

Insomma, le tensioni nei mari attorno alla Cina non accennano a diminuire, alimentate dalle ricchezze ittiche e dagli idrocarburi sepolti sotto i fondali. Si noti come le rivendicazioni territoriali di Pechino, che vanno avanti da lustri in spregio al Diritto Internazionale, le abbiano alienato le simpatie degli altri attori regionali, i quali tentano di difendere i propri interessi e la propria integrità territoriale con pattugliamenti più frequenti, costruendo i loro avamposti e cambiando la loro postura diplomatico-militare in favore di Washington. Il caso del Vietnam è piuttosto eloquente, soprattutto se consideriamo i trascorsi drammatici tra i due Paesi. In questo contesto, il balance of power tra Stati Uniti e Cina è molto importante per determinare le dinamiche politico-strategiche della regione; l’evoluzione delle rispettive capacità militari e di quelle dei Paesi alleati sarà un tassello importante per la riuscita della deterrenza, nella speranza che sia sufficiente per evitare un conflitto potenzialmente catastrofico.


Parte II – La marina cinese

Il ruolo della People’s Liberation Army Navy

Partiamo da tre citazioni dei leader cinesi che si sono alternati alla guida della Repubblica Popolare negli ultimi cinquant’anni; si noti com’è cambiata la visione strategica della Marina e del mare in 25 anni, dagli anni ’80 in poi.

  • La nostra Marina dovrebbe condurre operazioni costiere. Essa è una forza di difesa e tutte le nuove costruzioni devono essere realizzate per questo scopo.
    Deng Xiaoping, 1980
  • Siamo una potenza continentale e una potenza marittima.
    Jiang Zemin, 1995
  • La sicurezza marittima, la sicurezza nello spazio e la sicurezza nello spettro elettromagnetico sono già diventati aspetti rilevanti della sicurezza nazionale.
    Hu Jintao, 2004

Bisogna riconoscere che gli affari marittimi hanno sempre giocato un ruolo piuttosto limitato nella storia cinese: le minacce più serie alla sicurezza erano di natura terrestre, sotto forma d’invasioni provenienti dall’Asia centrale e settentrionale. Questo però non significa che la Cina (unificata nel 221 a.C.) non fosse coinvolta in attività marittime sin dall’antichità, tanto che i mercanti cinesi hanno raggiunto l’Oceano Indiano e l’Africa orientale. Nel dodicesimo secolo venne creata la Marina militare allo scopo di proteggere i commerci marittimi che legavano il paese con l’Africa, l’India e il Mare Arabico; inoltre era necessario difendere l’impero dalle invasioni provenienti dai territori nordorientali (Mar Giallo).

L’apice dell’attività marittima cinese giunse all’inizio del XV secolo grazie alle spedizioni marittime condotte dal famoso ammiraglio Zeng He, che approdò sulle coste occidentali dell’Africa, in Medio Oriente, in India e in varie regioni dell’Asia. Tuttavia al termine di questa fase la Marina conobbe un periodo di grande contrazione, sia per via dei costi sia per il focus statuale sempre più spostato alle minacce terrestri (tribù nomadi dell’Asia centrale e Mongoli in particolare). L’assenza di una vera flotta da guerra fu evidente durante le guerre dell’oppio a metà del XIX secolo, in seguito alle quali la dinastia Qing fu costretta ad aprire diversi porti agli scambi commerciali con le potenze europee.

La lezione fu chiara e nel 1875 venne creata la Marina imperiale, equipaggiata con vascelli importati da UK e Germania; la Marina però dimostrò gravi lacune tecniche, logistiche e di comando di cui si avvantaggiò soprattutto il Giappone. Insomma, all’alba del XX secolo la Cina non possedeva una vera e propria tradizione militare marittima; le cose non migliorarono fino a tutta la Seconda Guerra Mondiale e alla guerra civile.

Nel 1949 la neonata Repubblica Popolare Cinese fondò la People’s Liberation Army Navy (PLAN), che già nel nome conteneva la “sottomissione” istituzionalizzata all’Esercito. Nei vent’anni successivi la missione principale della Marina rimase limitata alla protezione del territorio continentale da possibili attacchi esterni. Il materiale impiegato era principalmente di origine sovietica; si trattava di unità costiere veloci, pattugliatori costieri, dragamine, sommergibili di vario tipo, fregate e cacciatorpediniere di epoca bellica. Notare che fu creata anche una compo­nente da sbarco che avrebbe dovuto essere impiegata per riconquistare Taiwan.

Molti tecnici e progettisti cinesi furono mandati in Russia per apprendere le tecniche di costruzione navale dagli omologhi sovietici. Questo avvenne fino alla rottura ideologica con l’URSS, che portò a un conflitto politico-militare capace di cambiare il pensiero militare nazionale. Fu così che, negli anni ’70 e ’80, la missione primaria della PLAN si spostò sulla difesa delle coste nord-orientali ove si temeva un’incursione sovietica. All’epoca la Marina cinese era ancora una modesta forza da difesa costiera, capace tuttalpiù di supportare le operazioni terrestri.

Fu negli anni ’80 che si verificò un primo, importante rinnovamento politico-economico: l’apertura verso l’Occidente e il riorientamento verso il commercio internazionale sarebbero stati i due principali strumenti per favorire la crescita economica della Repubblica Popolare. Alla fine del XX secolo gli interessi economici e commerciali cinesi avevano assunto una connotazione marcatamente marittima. Questa svolta storica travolse anche la PLAN, chiamata a svolgere funzioni di crescente importanza: la protezione dei commerci e la sicurezza marittima. Il focus strategico tornò ad essere Taiwan e gli arcipelaghi del Mar Cinese Meridionale oggetto di contenziosi; di conseguenza la Marina venne sempre più intesa come “Marina d’altura”, in grado di operare e combattere oltre le coste della madrepatria.

La minaccia terroristica seguita all’11 settembre 2001, il crescente fenomeno della pirateria e l’ingresso della Cina nella World Trade Organization (WTO) nel 2002 hanno confermato l’importanza del mare nella strategia nazionale cinese, di cui il potenziamento delle infrastrutture e l’ampliamento della flotta sono diretta conseguenza.

In anni più recenti, sull’onda dello sviluppo economico-industriale e di fronte al logoramento con le relazioni con gli USA, Xi Jinping non ha fatto mistero di voler trasformare la Cina in una potenza marittima globale, svolta fondamentale per promuovere lo sviluppo economico e salvaguardare la sovranità, la sicurezza e gli interessi nazionali. Oggi i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

L’importanza del mare nella strategia cinese si vede chiaramente nel progetto della “Via della Seta”, lanciato nel 2013 per incrementare i collegamenti commerciali e diplomatici tra la Cina, il resto dell’Asia, l’Africa e l’Europa. Lungo le rotte commerciali dell’indo-pacifico Pechino ha costruito alcuni avamposti noti come il “filo di perle”, il più importante dei quali è la base di Gibuti, inaugurata nel 2017: collocata strategicamente tra Asia ed Africa, la base ha lo scopo di supportare i gruppi navali cinesi che, da una decina d’anni, partecipano alle operazioni anti-pirateria attorno al Corno d’Africa (in maniera autonoma e non coordinata con le altre Marine occidentali). Ma la PLAN si è anche spinta ben oltre: nel 2017 una fregata e un cacciatorpediniere sono entrati nel Mediterraneo, hanno passato Gibilterra e sono giunti a San Pietroburgo per esercitarsi con la Marina russa nel Baltico (e per testimoniare i legami con la Russia, ovviamente). Un’impresa importante per la Marina cinese, che comunque ci fa ricordare come russi e cinesi si addestrino insieme nel Pacifico da tempo.

Altra base importante è a Gwadar in Pakistan, da dove si dirama il collegamento con la Via della Seta terrestre. Importanti anche le basi in Sri Lanka e Myanmar.

Le altre “Marine”

La Guardia Costiera cinese è la più consistente del mondo, per numero e per dimensioni delle unità (alcune dislocano 10.000 tonnellate). Sono dedicate al pattugliamento e al soccorso marittimo, anche lontano dalla madrepatria; inoltre vengono impiegate per “visite di cortesia” a Paesi dove Pechino vuole espandere la sua influenza. Naturalmente contribuiscono a fornire informazioni alla PLAN per accrescere la situational awareness in una determinata zona, anche lontano dalle coste cinesi (per esempio nelle zone contese del Mar Cinese Meridionale).

Esiste anche una terza Marina chiamata “Milizia Marittima”, che è composta da personale civile (750.000 uomini) inquadrato in una Marina paramilitare che, all’occorrenza, può cooperare con la PLAN. Parliamo di 140.000 unità di vario tipo, tra cui migliaia di pescherecci che, armati di cannoni ad acqua e di rinforzi anticollisione, possono molestare altri vascelli simili per costringerli ad allontanarsi da una zona considerata “propria”. Queste unità vengono mobilitate tipicamente in zone contese per azioni di disturbo o intimidazione; una forma di pressione soft che evita di mobilitare la PLAN (con il relativo rischio di escalation).

Però non ci sono solo i pescherecci: ad aprile 2023 un traghetto cinese è stato riempito di marines e ha partecipato ad esercitazioni di sbarco anfibio nel Fujian. Questo impiego “militare” di un mezzo “civile” apre nuove prospettive per uno sbarco su Taiwan, perché unirebbe una grande “sealift capability” con il vantaggio tattico dell’ambiguità: è difficile sapere cosa trasporta veramente un traghetto civile, ma è ancora più difficile sparagli addosso! Dal 2012 le navi delle principali compagnie di trasporti cinesi sono state integrate nella Milizia Marittima proprio come le migliaia di pescherecci di cui sopra, ma ovviamente un traghetto ha delle capacità di trasporto ben superiori. I più capaci sono i cosiddetti Roll-on/Roll-off (Ro-Ro), che sono dotati di varie rampe d’accesso per permettere ai veicoli (inclusi centinaia di camion e carri armati, ma anche elicotteri adeguatamente preparati) di salire e scendere velocemente dalla nave; sono utilizzati dai militari di tutto il mondo per spostare grandi unità e per sostenere i bisogni logistici, ma solo in tempo di pace e comunque non in zone a rischio. La ragione è semplice: un traghetto non è fatto per operare in zona di guerra. Una nave logistica classe San Antonio della US Navy può trasportare solo un quarto dei mezzi contenuti nel più grande Ro-Ro cinese, ma possiede delle capacità di sopravvivenza e di combattimento idonee per operare in ambiente ostile.

Tuttavia, se ci mettiamo nell’ottica di un’invasione di Taiwan, se pensiamo alle distanze in gioco e se immaginiamo una robusta protezione dei traghetti da parte di unità navali ed aeree, ecco che l’impiego di una flotta di Ro-Ro che attracca ai porti di Taipei e Kaohsiung[4] non appare poi così assurda. Inoltre, i traghetti designati per operare con la PLA sono stati progettati o modificati per trasportare unità meccanizzate, attraccare in condizioni non ideali e navigare a velocità più alte dello standard; le rampe d’accesso sono rinforzate per reggere il peso degli MBT ma anche per lanciare mezzi anfibi in mare. Secondo uno studio taiwanese ci sono circa 40 traghetti con capacità di lancio/recupero di mezzi d’assalto anfibio, quindi sottovalutare gli effetti dei Ro-Ro potrebbe essere un grosso errore. Anche in caso di distruzione dei porti taiwanesi, i traghetti potrebbero operare da pontoni galleggianti o in mare, contribuendo allo sforzo logistico cinese sulle brevi distanze.

L’ambiguità di essere mezzi civili che navigano vicino ad unità militari metterebbe in difficoltà chiunque volesse attaccarli, a meno che non esista l’assoluta certezza che quella nave trasporti effettivamente materiali militari; una certezza non facile da ottenere. La buona notizia è che Taiwan sa di queste navi e le monitora costantemente; una deviazione dalle loro rotte standard potrebbe essere l’indizio di un’invasione imminente.

La crescita navale cinese

La Cina è impegnata da tempo nel potenziamento del suo strumento militare; il budget della Difesa è aumentato per 28 anni consecutivi e al momento è secondo solo a quello degli USA. La crescita è quantitativa e qualitativa, con importanti passi avanti tecnologici che la pongono sempre più vicina all’Occidente. La PLAN è uno dei tasselli centrali del build-up cinese: nel caso di un conflitto nel Mar Cinese Orientale con Taiwan e i suoi alleati, la Marina avrebbe un ruolo di primaria importanza sia in azioni offensive (isolare e attaccare Taiwan) sia difensive (proteggere la madrepatria dal dispositivo aeronavale avversario).
La Marina cinese ha iniziato il suo processo di crescita dal 1987, con l’obiettivo di schierare la più grande e moderna forza da combattimento del mondo entro il 2049; le portaerei sono considerate (a ragione) uno degli elementi più importanti in quanto principale strumento di proiezione di forza. La crescita della Marina cinese beneficia delle grandi capacità produttive della cantieristica nazionale. Il cantiere navale di Jiangnan Changxing a Shanghai è più grande di tutti i 7 cantieri americani messi assieme! In breve, i cantieri cinesi possono costruire più navi degli americani allo stesso tempo, anche perché possono costruire navi mercantili assieme a navi militari (tanti impianti sono uguali) e questo è un punto di forza fondamentale.

Si comprende allora perché la marina cinese è diventata la più grande del mondo, con oltre 340 navi; la US Navy ne ha tra 280 e 300. Entro il 2030 la PLAN varerà altre 70 nuove navi contro le circa 40 americane. Fonti diverse presentano numeri leggermente diversi ma la sostanza è chiara e nessuno la contesta. C’è però da spiegare un dettaglio importante: la Marina cinese ha più vascelli di quella americana ma sono vascelli più piccoli. Infatti la US Navy vanta un tonnellaggio totale di circa 4,5 milioni di tonnellate contro le 2 milioni di tonnellate circa della PLAN. La tabella seguente mostra il progresso quantitativo cinese in rapporto agli Stati Uniti.

Legenda

SSB = ballistic missile submarines.
SSN = nuclear-powered attack submarines. 
SS = diesel attack submarines. 
CV = aircraft carriers. 
CG = cruisers. 
DD = destroyers. 
FF = frigates. 
FFL = corvettes (i.e., light frigates). 
PC = missile-armed coastal patrol craft. 
LST = amphibious tank landing ship. 
LPD = amphibious transport dock ship. 
LSM = amphibious medium landing ship. (Starting with the 2021 edition, the annual DOD report shows a combined figure for LST/LPD and LSM).
CCG = China Coast Guard ships. 
Total PLAN ship types shown to right does not include other PLAN ship types not shown to right, such as auxiliary and support ships. 
U.S. total = Total U.S. Navy battle force ships, which includes auxiliary and support ships but excludes patrol craft.

Le portaerei

Venendo alle portaerei, il percorso di acquisizione iniziò nel 1985 quando la Cina ottenne dall’Australia la vecchia portaerei Melbourne. Poi, nel 1995 e nel 1996, acquistò dalla Russia le portaerei “Minsk” e “Kiev” (classificate dai russi “incrociatori pesanti aero-missilistici”) poste in disarmo con la fine della Guerra Fredda; diventarono parchi tematici. Queste navi furono studiate a fondo poiché già allora esisteva un piano per dotarsi di portaerei; si trattava di aspettare che i tempi fossero maturi.

Fino a 10 anni fa la Cina non aveva portaerei operative, ma adesso ne ha tre: due sono operative e una è nella fase di prove in mare. Non sorprende che la loro acquisizione abbia fatto molto clamore: le portaerei sono i “pezzi pregiati” delle flotte moderne e sono viste come un primo passo per contendere agli americani il dominio dei mari.

La prima portaerei è la Liaoning (Type 001, identificativo CV-16), una portaerei ex sovietica classe Admiral Kuznetsov inizialmente battezzata Varyag, che la Cina comprò dall’Ucraina nel 1998 con il pretesto di farne un parco divertimenti. La Varyag era incompleta e venne faticosamente rimorchiata attraverso Gibilterra fino in Cina; finalmente entrò in servizio nel 2012 dopo una decina d’anni di lavori. La Liaoning, come la sorellastra Kuznetsov russa, è una portaerei da 60.000 tonnellate della categoria STOBAR (Short Take-Off But Arrested Recovery), come si vede dal ponte con ski-jump da cui prendono il volo 24 caccia J-15 (ovvero copie del Su-33 russo). Troviamo anche 12 elicotteri.

Nel 2016 è stato schierato il primo carrier strike group con la Liaoning e 2 cacciatorpediniere lanciamissili Type 052.

Liaoning, Type 001
Appontaggio di un J-15 sulla Liaoning

L’esperienza acquisita con il riallestimento della Varyag/Liaoning ha permesso di costruire da zero la Shandong (Type 002, CV-17), che somiglia molto alla Liaoning ma incorpora qualche modifica: è leggermente più larga, pesa 10.000 tonnellate in più e può impiegare 36 caccia J-15 e 12 elicotteri. È entrata in servizio nel 2019.

Shandong, Type 002
Z-18 con radar

La Fujian (Type 003, CV-18) è stata impostata nel 2018 e dovrebbe essere dichiarata operativa nel 2024. Questa è la prima portaerei completamente progettata e costruita in Cina, e con le sue 80-85.000 tonnellate andrà molto vicino alla stazza delle superportaerei[5] americane. È anche la nave da guerra più grande mai costruita in Asia e forse ne verranno realizzati 2 esemplari; a quel punto, con 4 portaerei in totale, sarà possibile fare una rotazione regolare così da avere almeno 2 vascelli sempre in mare mentre gli altri 2 sono fermi per la manutenzione periodica.

La Fujian Presenta ponte il angolato tipico delle portaerei occidentali (per permettere decolli e atterraggi simultanei) e le dimensioni dell’isola sono molto ridotte rispetto a Liaoning e Shandong. Lo ski-jump viene eliminato e vengono introdotte le catapulte per lanciare i velivoli (configurazione CATOBAR, Catapult Take-Off But Arrested Recovery); finora solo americani e francesi le usavano. Fatto interessante, troviamo 3 catapulte elettromagnetiche EMALS (ElectroMagnetic Aircraft Launch System). In sostanza, i cinesi hanno saltato a piè pari la “generazione” delle catapulte a vapore per affidarsi alle EMALS, che consentono un rateo di sortite più elevato, riducono le sollecitazioni ai velivoli e richiedono meno componenti meccanici nella progettazione della nave; però la tecnologia delle EMALS è difficile da padroneggiare. Finora, solo la classe Ford della US Navy è stata equipaggiata con l’EMALS e la loro introduzione non è stata priva di problemi. Tuttavia, una volta perfezionata, l’EMALS permette di ridurre gli sforzi cui sono sottoposti i velivoli, offrendo la capacità di modulare con precisione le forze generate durante il lancio in base al velivolo.

Le catapulte permetteranno di lanciare i caccia J-15 e il nuovo caccia stealth FC-31 ancora in sviluppo (nella variante navalizzata J-35) a pieno carico, ma anche l’AWACS KJ-600. Questo sarà un grande passo avanti rispetto a Liaoning e Shandong. Nella foto qui sotto, scattata durante il varo, le zone sopra le catapulte risultano coperte: evidentemente ci si sta lavorando e lo si vuole fare con discrezione!

Fujian, Type 003
KJ-600

È praticamente certo che sia in sviluppo una nuova classe di portaerei nota come Type 004, che si dice arriverà a 100.000 tonnellate e probabilmente avrà propulsione nucleare, con i relativi benefici in termini di elettricità prodotta e autonomia. Dalle immagini diffuse finora (come sempre le informazioni sui programmi cinesi sono scarse e fumose) si nota un design simile alla classe Ford e configurazione CATOBAR, probabilmente con EMALS. Sul ponte si notano molti caccia J-35.

In sostanza, si espanderanno dimensioni e capacità della Fujian per arrivare a una portaerei molto simile a quelle americane; non potrebbe essere altrimenti viste le ambizioni navali e di proiezione di potenza di Pechino.

Type 004

Spendiamo ora qualche parola sul caccia FC-31/J-35. L’FC-31 è un caccia stealth di 5a generazione in sviluppo da alcuni anni. Sin dall’inizio si era vociferato di un impiego imbarcato e in effetti le immagini che sono state diffuse recentemente mostrano la livrea e lo stemma dello “squalo volante” che abbiamo già visto sui J-15 della PLAN.

Il design è largamente ispirato all’F-35, incluso il canopy, molto simile ma meno “a bolla”. L’FC-31/J-35 però è bimotore e non risulta in sviluppo una versione STOVL come l’F-35B; questo ha eliminato tutti i vincoli derivanti dalla lift fan centrale e ha semplificato il progetto, permettendo l’installazione di 2 motori con i relativi benefici in termini di sicurezza e ridondanza.
Nella parte posteriore vediamo che gli ugelli dei motori sono seghettati per ridurre la RCS e protetti da prolungamenti della fusoliera per migliorare la schermatura IR. I motori sembrano i nuovi WS-21 di produzione nazionale (non più gli RD-93 russi).

Spostandoci sulla pannellatura, notiamo le seghettature tipiche dei jet stealth di 5a generazione; questo design presuppone molta precisione produttiva e costruttiva. Non si conoscono le performance stealth dell’FC-31 ma è innegabile che i cinesi abbiano accumulato esperienza, anche con il caccia J-20.
Nel complesso l’aereo presenta una forma lineare, con pannelli minimamente esposti, senza spazi vuoti, pieghe, antenne o altri elementi che possano inficiarne la RCS. Tralasciamo la sonda per i dati di volo davanti al radome, comunemente installata sugli aerei sottoposti ai test di volo.

Se l’FC-31/J-35 farà la sua apparizione al salone di Zhuhai a fine anno, sapremo ancora di più su questo progetto e sulle sue caratteristiche.

Tempo di confronti

Facciamo ora un rapido confronto tra le portaerei cinesi e americane. Emerge subito una differenza di tonnellaggio: Liaoning e Shandong hanno circa metà della stazza delle classi Nimitz e Ford mentre la Fujian sarà il 20% più leggera. Inoltre le portaerei americane possono trasportare fino a 90 aerei (normalmente 65-75) ovvero il doppio delle carrier cinesi. In questo caso le dimensioni contano, perché se si vogliono fare operazioni 24/7 servono tanti velivoli e tanti spazi per ricovero, manutenzione, magazzini, personale.

Lo Ski-jump Liaoning e Shandong è un’altra limitazione, perché i caccia sono limitati nel peso al decollo (meno armi e meno carburante). Non solo: senza catapulte è impossibile lanciare velivoli più pesanti come gli AWACS E-2 Hawkeye e KJ-600. Quindi la situational awareness non riesce ad andare oltre l’orizzonte e quindi la flotta dipende da informazioni di terze parti (droni o AWACS basati a terra) condivise in rete. Una soluzione sono gli elicotteri Z-18 dotati di radar, che però hanno autonomia limitata e non posso volare ad alte quote.

Liaoning e Shandong hanno propulsione convenzionale, quindi sono più dipendenti dalle loro navi logistiche. Anche il disegno della nave comporta scarichi e tubazioni che finiscono col togliere spazio sui vari ponti. Quindi possiamo dire che saranno (forse) la Fujian, una sua eventuale gemella e la futura Type 004 ad avere le capacità minime per sfidare le superportaerei americane, grazie anche alle catapulte che permetteranno di lanciare i caccia a pieno carico e velivoli pesanti; ammesso che funzionino a dovere perché gli americani hanno tribolato parecchio per mettere a punto l’EMALS.

Però dobbiamo andare oltre il numero di navi e di aerei, le armi e le tecnicalità per capire le dimensioni della minaccia posta dalla PLAN. Quello che conta davvero è la capacità operativa di una forza armata, la sua esperienza, il suo addestramento. L’eccellenza americana nelle operazioni aeronavali non cade dal cielo: è stata “earned in blood” dalla WW2 attraverso decenni di esercitazioni, guerre, dispiegamenti, incidenti, adattamenti e modifiche. La Cina deve fare tutto questo da sola e velocemente; il solo vantaggio che ha è di poter “copiare” dalla US Navy, sfruttando decenni di pubblicazioni e procedure di dominio pubblico…ma non è facile nemmeno così. I cinesi lo sanno e stanno cercando di “crescere” limitando i danni: per esempio, le operazioni notturne e con tempo avverso non sono affatto una routine, mentre sono la norma per la US Navy.

Liaoning e Shandong vanno prese per quello che sono: portaerei da addestramento, destinate a impratichire gli equipaggi, costruire un’esperienza e creare delle procedure (dalla movimentazione di armi e velivoli fino alle procedure operative) su cui sviluppare qualcosa di più “serio”. La Fujian partirà da queste basi ma sarà a sua volta una piattaforma da addestramento, almeno per alcuni anni, anche perché sarà una nave più grande e più complessa da gestire.

Naturalmente sui media cinesi si racconta tutta un’altra storia: si parla di attività di volo intensa e di elevata prontezza al combattimento, ma la verità è differente. Durante il rischieramento della Liaoning nel maggio 2022 sono state volate 300 sortite con una media di 20 sortite al giorno; un risultato dichiarato “discreto” dalla Cina, considerando che era un addestramento. Peccato che, nello stesso periodo, la portaerei Ford abbia totalizzato 170 sortite in 8,5 ore di addestramento, e questo la dice lunga sul gap operativo esistente.

I giapponesi, che tengono d’occhio le attività della PLAN da vicino, dicono che i caccia cinesi tendono a volare con un aeroporto alternato nel range dei velivoli, in caso di problemi. I J-15 hanno una buona autonomia e questo aiuta; inoltre vengono quasi sempre mandati in volo senza carichi esterni o con missili AA leggeri, così da ridurre il rischio in generale. Solo nel dicembre 2022 la Liaoning ha compiuto le sue prime “blue waters operations” arrivando a ovest di Guam, a 2.400km di distanza dal più vicino aeroporto alternato. Queste operazioni implicano che i velivoli decollino e atterrino sulla stessa portaerei, quindi presuppongono un livello di rischio più elevato cui devono corrispondere skills altrettanto elevati.

Dotarsi di una marina di prima classe, portaerei incluse, fa parte degli obiettivi che la Cina si è data per essere una superpotenza; la stessa cosa vale per il suo strumento militare in generale, che deve essere in grado di combattere e vincere. Che poi il potenziamento militare serva anche per prendere Taiwan, è possibile. Il fatto è che la questione della riunificazione con la “provincia ribelle” è presa molto seriamente a Pechino; quando si riterrà pronto lo strumento militare, è possibile che si accenda qualche scintilla.

Gli USA hanno già spostato il loro baricentro strategico sul Pacifico proprio perché si aspettano che su quel quadrante possa scoppiare la prossima major war, che necessariamente riguarderà la Cina. Se così sarà, uno scontro aeronavale attorno a Taiwan è possibile se non addirittura probabile.

Ricordiamo che, mentre la guerra russo-Ucraina va avanti, gli USA non fanno mistero di considerare la Cina la sfida principale per i loro interessi globali, non la Russia. Secondo Washington, la Russia è una minaccia concreta per gli alleati europei, così come Iran, Corea del Nord e il terrorismo internazionale, ma la Cina è qualcosa di più grave perché persegue l’egemonia sull’Asia intera e quindi sul mondo. Non avendo risorse sufficienti per intervenire in tutto il mondo contro avversari peer o near-peer, gli USA devono necessariamente fare delle scelte strategiche e spingere i loro alleati europei a sobbarcarsi quote crescenti dei costi della difesa. Non è un mistero che l’Europa abbia approfittato per decenni dell’ombrello americano (convenzionale e nucleare), potendo così spostare risorse dalla difesa al welfare; diversi presidenti americani hanno tentato di spingere gli alleati a fare di più per la difesa, ma senza successo. Ci è voluta la guerra in Ucraina per cambiare le cose (forse).

Dal punto di vista strettamente economico-commerciale, l’Europa è un grande mercato ma l’Asia lo è di più. La Russia, per quanto aggressiva e vasta, ha un PIL 10 volte inferiore a Cina e Unione Europea quindi è improbabile che diventi la potenza egemone in Europa o in Asia; invece l’economia cinese domina il continente asiatico e per questo gli USA vogliono ricalibrare la loro presenza sul Pacifico, così da poter meglio contrastare eventuali azioni armate cinesi (contro Taiwan in primis). In breve, la politica estera americana sta passando da “Europe first” ad “Asia first”, una transizione inedita che obbliga gli alleati europei (e non solo) a condividere maggiormente le responsabilità della sicurezza globale in un redivivo mondo bipolare.

Per il momento la strategia americana si basa sulla deterrenza, proprio perché nessuno vuole davvero una guerra tra potenze nucleari. La presenza di una robusta e credibile componente aeronavale è la base della proiezione di potenza, così da avere la superiorità aerea sul mare ed essere in grado di portare a termine operazioni d’attacco articolate.

Un fatto è certo: se la Cina vuole essere una superpotenza al pari degli USA, deve essere in grado di sfidare il dominio americano sul mare. Non a caso il primo passo della crescita militare cinese ha riguardato il “sea denial” cioè lo sviluppo di missili antinave e di bolle A2/AD (Anti-Access/Area Denial) per rendere la vita difficile alle forze aeronavali avversarie. Solo in un secondo step ci si è concentrati sulla proiezione di potenza e quindi sullo sviluppo della Marina che richiede investimenti, tempi e know-how superiori; la realizzazione delle portaerei è una sorta di punto d’arrivo.

Quindi dobbiamo aspettarci un’ulteriore crescita della PLAN ma anche della componente missilistica antinave, così da minacciare i Carrier Battle Group americani dalla distanza soprattutto con missili supersonici e ipersonici; sono ben noti i missili balistici antinave (ASBM, Anti-Ship Ballistic Missile) DF-21 (CSS-5 per la NATO) con gittata oltre i 1.400km e il DF-26 con gittata di almeno 4.000km. In ogni caso la Cina vanta una quantità enorme di missili in servizio e in sviluppo di tutti i tipi, inclusi gli ICBM DF-5 con testate MIRV e missili ipersonici (Hypersonic Glide Vehicle, HGV) DF-17. Le mappe del CSIS (Center for Strategic and International Studies) a seguire mostrano le portate dei principali missili cinesi. Si noti come Guam sia a portata di una quantità di missili balistici cinesi; in caso di ostilità possiamo aspettarci che l’isola sarà fatta oggetto di pesanti attacchi missilistici, proprio come le altre basi americane della regione.

Ha sollevato un certo scalpore l’aver scoperto che i cinesi hanno replicato le sagome di alcune portaerei americane nel deserto; una sagoma risulta montata su rotaia. Forse servono per fare pratica di tiro? Pechino comunque non fa mistero di aver pensato vari asset nell’ottica di uno scontro con gli USA e francamente è logico che sia così. A parte gli ASBM di cui sopra, possiamo citare anche il missile ipersonico antinave YJ-21, lanciabile dai VLS dei caccia Type 055 e capace di una velocità terminale di Mach 10. Ma cambiando “ambiente” potremmo citare anche il missile aria-aria PL-15 con gittata di 200 km e il futuro PL-XX (o PL-17, PL-20, PL-21) che dovrebbe arrivare oltre i 300 km: sono ordigni chiaramente progettati per colpire AWACS e aerorifornitori dalla distanza per privare l’aviazione americana dei suoi preziosi “moltiplicatori di forze”.

Altre unità della PLAN

Scendere in dettaglio sulla composizione della Marina cinese non fa parte degli scopi di questo lavoro quindi ci limitiamo a qualche accenno.
Tra le Unità Maggiori Combattenti, troviamo dei cacciatorpediniere piuttosto interessanti. A fine anni ’90 la Cina ha acquistato dalla Russia dei caccia classe Sovremenny da cui sono partiti per sviluppare i propri caccia tra cui citiamo i Type 052C (classe Lanzhou, per la NATO Luyang II), che includevano le prime soluzioni per ridurre la segnatura radar e acustica; i Type 052D (classe Kunming, per la NATO Luyang III) sono una versione migliorata con più pozzetti VLS, mentre i Type 052E (classe Luyang IV) sono una versione allungata per dare più spazio agli elicotteri. Si notino le antenne planari del radar già visti su altro naviglio occidentale a partire storicamente dai Burke americani.

Type 052C

I Type 055 (classe Renhai) sono classificati cacciatorpediniere ma hanno stazza più simile agli incrociatori (+12.000 tonnellate). Sono navi molto moderne e pesantemente armate, dedicate primariamente alla difesa antiaerea anche dei Carrier Battle Group (CBG).

Type 055

Tra le fregate citiamo le Type 053, che risalgono agli anni ’70 e sono state ammodernate nel tempo fino a creare una varietà di versioni. Gli ammodernamenti hanno interessato struttura, radar, armamenti eccetera. Gli ultimi aggiornamenti dovrebbero risalire al 2015. Alcune unità sono state dismesse, altre vendute all’estero.

Le Type 054 (classe Jiangkai I) sono fregate nate negli anni ’80 e ispirate alle fregate classe La Fayette della Marine Nationale; impiegano anche elettronica e armi francesi. Ne sono stati prodotti solo 2 esemplari. Il design stealth riflette il cambio di passo della PLAN, con una maggiore attenzione alla capacità di sopravvivenza in caso di scontro. Le Type 054A (classe Jiangkai II) rappresentano un’importante evoluzione che ha riguardato la difesa aerea con l’introduzione di VLS e razzi antisom. Sono state prodotte in una trentina di esemplari e sono dedicate soprattutto alla lotta antisom ma sono dotate anche di missili antinave; vengono impiegate in ruolo antipirateria e fanno parte dei Carrier Battle Group, quindi sono molto polivalenti.

Type 054A

Le Corvette Type 056 (classe Jiangdao) hanno rimpiazzato parte delle Type 053 e sono relativamente recenti, come si vede dal design stealth. Sono progettate per operazioni di pattugliamento e scorta litoranee o al massino nelle “green waters” ma non per operazioni oceaniche; sono in dotazione anche alla Guardia Costiera. Hanno riscosso qualche successo commerciale all’estero.

Type 056

Le navi da assalto anfibio sono oltre 50 di vario tipo, incluse 3 nuovissime LHD (Landing Helicopter Dock) Type 075 (Classe Yushen) da circa 40.000 tonnellate, grossomodo equivalenti alle Tarawa, Wasp e America della US Navy. Il bacino allagabile può accogliere sia mezzi da sbarco a cuscino d’aria sia convenzionali. Sul ponte di volo al momento troviamo elicotteri ma, in un prossimo futuro, potrebbero esserci dei droni. Ricordiamo che la Cina non dispone di alcun caccia STOVL.

Type 075

Troviamo poi 8 LPD (Landing Platform Dock) Type 071 (classe Yuzhao) che possono trasportare un mix di marines, veicoli, mezzi da sbarco ed elicotteri. A queste si aggiungono altre decine di mezzi da sbarco di varie classi, tutte destinate ad aumentare nei prossimi anni.

Type 071
Type 071

A queste si aggiungono degli hovercraft, in particolare 4 classe Zubr acquisiti dalla Russia e in grado di trasportare un discreto contingente di uomini e mezzi a una velocità di 60 nodi; ideali per un attacco veloce attraverso lo stretto di Taiwan.

Hovercraft classe Zubr

La componente subacquea vede una netta prevalenza numerica di sottomarini d’attacco a propulsione convenzionale (SS), che danno il loro meglio in acque poco profonde e quindi sono perfetti per tendere agguati ad eventuali invasori.

I più vecchi sono i Type 035 (classe Ming), entrati in produzione negli anni ’70 e poi sviluppati anche in maniera radicale, tanto che l’ultima versione Type 035B è stata prodotta fino ai primi anni 2000.

I Type 039 (classe Song) sono decisamente più moderni, sia nel design che nelle dotazioni. Si noti che nel 2006 uno di questi sottomarini è emerso in superficie a distanza di tiro (9 km) dalla portaerei USA Kitty Hawk che incrociava nel Mar Cinese Orientale!

Troviamo poi alcuni sottomarini classe Kilo e Improved Kilo di provenienza russa.

I Type 093 (classe Shang) sono invece sottomarini d’attacco a propulsione nucleare (SSN), impostati negli anni ’90 con la collaborazione russa; fonti cinesi affermano che il livello di rumorosità sia simile agli Akula russi e ai 688 Improved Los Angeles americani. Sono armati con siluri e con missili antinave. Parliamo al momento di soli 6 battelli.

Il deterrente nucleare strategico si basa su 6 sottomarini lanciamissili balistici a propulsione nucleare (SSBN) Type 094 (classe Jin), piuttosto recenti. Sono armati con 12 missili balistici JL-3 con gittata di oltre 10.000 km[6]. Sono noti per essere piuttosto rumorosi e questo è un problema fondamentale per un SSBN, che dovrebbe fare della furtività la sua arma principale. Forse anche per questo è stato lanciato il progetto di un nuovo SSBN chiamato Type 096 (classe Tang).

È probabile che, con l’espandersi dell’attività navale alla “seconda catena di Isole” e oltre, sempre più sottomarini cinesi saranno a propulsione nucleare, inclusi gli SSN.

Type 094

Quindi la PLAN è in piena espansione quantitativa e qualitativa, con piani di sviluppo molto aggressivi per il prossimo futuro. Quindi è tutto rose e fiori? Non proprio.

La PLAN manca innanzitutto di esperienza operativa, soprattutto per le operazioni aeronavali, per le quali la US Navy vanta un’esperienza quasi secolare che va dalla Seconda Guerra Mondiale alla Guerra Fredda fino ad oggi, navigando in tutto il mondo. Ma più in generale, l’impiego dei gruppi navali in altura risente di un supporto logistico e di rifornimento in mare ancora piuttosto scarso, e questo può creare problemi nelle operazioni oceaniche.

Dal punto di vista tecnico, le navi e i sottomarini cinesi sono mediamente più rumorosi delle unità occidentali; a questo sembra si stia ponendo rimedio, resta da vedere in che forma. Qui emerge una certa scarsità d’informazioni sulle reali capacità cinesi, per lo meno in ambito OSINT; un’opacità che si ripete su tutto lo spettro dei materiali militari cinesi che potrebbero essere migliori o peggiori di quanto non si creda.

La criticità più importante però è legata alla geografia: per operare nel Pacifico la PLAN deve superare dei choke point obbligati ove è facile tendere degli agguati (tra l’altro i fondali non sono molto profondi e ci sono diversi scogli e isolotti, quindi la navigazione non è semplice). Volendo invece operare nell’Oceano Indiano bisogna passare lo stretto di Malacca. Non c’è molto che la Cina può fare per risolvere questo problema geografico, se non dotarsi di basi avanzate che le consentano di gestire meglio eventuali operazioni militari; la presa di Taiwan sarebbe importantissima proprio per superare i choke point che fanno perno sull’isola e poter accedere al mare aperto direttamente.

Le portaerei sono obsolete?

Quando si parla di portaerei spesso viene posta la questione sulla loro presunta inadeguatezza o obsolescenza come sistema d’arma, tentando di fare un parallelo con le corazzate che risultarono superate proprio con l’avvento delle portaerei ed ebbero il loro canto del cigno durante la Seconda Guerra Mondiale. Più nello specifico, ci si domanda se abbia senso continuare a costruire queste grandi e costosissime navi mentre i missili a lungo raggio si fanno sempre più prestanti e pericolosi.

Analizziamo l’argomento cominciando dai costi. Le portaerei americane classe Ford sono le più grandi e le più care al mondo: ci sono voluti 13 anni e 13,3 miliardi di dollari per costruire la capoclasse, CVN-78 Gerald R. Ford. Le successive CVN-79 John F. Kennedy e CVN-80 Enterprise, in costruzione presso Newport News Shipbuilding in Virginia, costeranno “solo” 9 miliardi di dollari l’una. Queste cifre hanno suscitato molto dibattito e hanno attirato l’attenzione dei critici, che vedono le portaerei come costosissimi bersagli nel mirino di una pioggia di missili antinave (in particolare per i missili ASBM cinesi). In fondo, basta un solo colpo fortunato per affondare una nave da miliardi di dollari assieme ai suoi aerei e a 4.500 uomini e donne.

Inoltre navi di quelle dimensioni sono ben visibili dal cielo (aerei e droni ISR), dallo spazio (satelliti) ma anche dal mare: la “Milizia Marittima” cinese dispone di migliaia di pescherecci all’apparenza innocui ma che possono fungere da “asset ISR impropri” distribuiti su una superficie enorme; potrebbero anche essere utilizzati come barchini suicidi e mandati a schiantarsi contro obiettivi nemici (terrestri e navali).

Queste osservazioni hanno un senso, ma non bisogna commettere l’errore di credere che le portaerei siano grosse “sitting ducks” che si divertono a fare da bersagli! Le portaerei sono accompagnate dai loro Carrier Battle Group, che hanno tutti gli strumenti per difendersi da attacchi navali, sottomarini, aerei e missilistici. La componente aerea ed elicotteristica imbarcata può occuparsi di attacco terrestre, guerra navale sottomarina (ASW) e di superficie (ASuW), difesa aerea e ricognizione. Le difese aeree sono gestite da sistemi di combattimento integrati che vedono la loro massima espressione nel sistema Aegis, sviluppato per la US Navy a partire dagli anni ’60 per opporsi agli attacchi missilistici di saturazione sovietici. Si tratta di un sistema molto sofisticato che integra radar, gestione dei missili, software e interfacce operatore per offrire una protezione ridondante e stratificata che può andare dalle cannoniere CIWS (Close-In Weapon System) da 20mm fino alla protezione antibalistica (RIM-163 Standard Missile 3 o SM-3).

Naturalmente un CBG è collegato in network con tutte le sue componenti e con asset esterni come satelliti e droni, in modo da avere una situational awareness superiore e generare migliori effetti sul nemico. Per esempio: se un F-35 individua un missile antinave durante la sua missione, condivide questa informazione con tutti gli asset collegati in rete e la kill chain si attiva, magari con il lancio di un missile da un incrociatore o da una batteria terrestre.

Se moltiplichiamo questo processo di data sharing per includere tutti i velivoli, i droni, i satelliti, le unità di superficie, i sottomarini, i sistemi radar/EW eccetera, e se usiamo sistemi avanzati (magari dotati d’intelligenza artificiale) per processare la massa d’informazioni che riceviamo, il risultato sarà una visione incredibilmente completa del campo di battaglia con la possibilità di distribuire gli effetti con rapidità ed efficacia. Poi, nel prossimo futuro s’innesteranno su tutto questo i caccia di 6a generazione e i droni da combattimento autonomi (vedi live parabellum #246).

Schema degli asset collegati in network incentrati su Carrier Battle Group

I futuri sviluppi tecnologici permetteranno agli asset navali di difendersi ancora meglio dalle minacce aeromissilistiche, per esempio con armi ad energia diretta (è già stato provato il sistema laser AN/SEQ-3) e corazzature elettromagnetiche; non a caso le nuove navi in generale vengono progettate con un’esuberante capacità di produrre elettricità, sempre più necessaria per alimentare i sistemi di bordo (la stessa cosa avviene per i caccia di 6a generazione). Un’altra tendenza evidente è la riduzione del personale di bordo senza inficiare l’operatività generale; questo è reso possibile dall’automazione di varie attività e dalla ridotta manutenzione di diversi apparati (per esempio le EMALS).

La mobilità è un altro punto di forza: a differenza di un aeroporto, una portaerei si sposta costantemente e quindi bisogna cercarla, trovarla, tracciarne una rotta… e la Terra è coperta dal mare per il 70% della sua superficie! Nel caso di navi a propulsione nucleare, le necessità di rifornimento sono ancora più ridotte e quindi il tempo passato “da qualche parte in mare” aumenta.

Essere tanto “visibili” non è poi sempre un male: le portaerei sono perfette come “show of force”, raccogliendo il testimone delle cannoniere e delle corazzate del XIX-XX secolo. Spostare un Carrier Battle Group di fronte alle coste di qualcuno (il 40% della popolazione mondiale vive entro 100km dalle coste) significa mandare un messaggio politico-diplomatico piuttosto forte, che può andare dalla mera “manifestazione d’interesse” fino alla “minaccia latente”. Va ricordato che una portaerei americana trasporta una settantina di velivoli da combattimento che sono in grado di volare 24/7 per settimane, al ritmo di 240 sortite al giorno per una classe Nimitz e 270 sortite al giorno per una classe Ford. Senza contare le decine di missili cruise lanciabili da navi e sottomarini.

La US Navy ha incrociato innumerevoli volte nel Mar Cinese Meridionale e nel Mare delle Filippine per instillare fiducia ai Paesi amici della regione, sancendo la libertà di navigazione e la prevalenza del Diritto Internazionale. L’USAF compie azioni simili, sorvolando le isole su cui Pechino pretende di avere sovranità. Anche questi sono modi per esercitare pressione politica attraverso la deterrenza.

Infine, parliamo brevemente dell’ambito produttivo e industriale: costruire una portaerei classe Ford dà lavoro a oltre 2.000 fornitori sparsi in quasi tutti i 50 stati degli USA; questo significa migliaia di posti di lavoro per anni, con ovvie ricadute nell’economia nazionale. La stessa cosa accade in generale per l’industria della Difesa in tutto il mondo, un settore ad altissima tecnologia che genera occupazione e punti di PIL, a patto di riuscire a valorizzarla (soprattutto in chiave export).

In conclusione, parlare delle portaerei come mezzi obsoleti o inadatti per gli scenari bellici moderni non sembra corretto e infatti, chi può, se ne sta dotando. Non parliamo necessariamente di superportaerei, che evidentemente sono appannaggio di pochi nel mondo, ma di portaerei di tonnellaggio inferiore in grado di operare con velivoli STOL/VTOL (Short Take-Off and Landing/Vertical Take-Off and Landing) ed elicotteri. A volte ci si riferisce a queste portaerei come “portaerei leggere” o “Sea Control Ship”.

Una primissima idea di Sea Control Ship risale agli anni ’60, quando la US Navy propose d’introdurre delle portaerei leggere sul modello delle Escort Carriers della Seconda Guerra Mondiale, che avrebbero dovuto occuparsi della scorta ai convogli e in generale fornire “massa” alla flotta americana. Negli anni ’70 fu ipotizzato che queste portaerei “low cost” avessero una funzione multiruolo e si occupassero di lotta antisom e pattugliamento marittimo, con il contributo di alcuni caccia AV-8 Harrier imbarcati. L’Harrier fu il primo caccia STOVL mai realizzato e permise d’imbarcare una componente aerea anche su navi che non fossero esattamente delle portaerei; per esempio, i Marines impiegarono gli Harrier dalle loro navi d’assalto anfibio per decenni.

Il progetto delle Sea Control Ship fu cancellato a metà degli anni ’70 più che altro per ragioni finanziarie, ma il concetto fece presa fuori dagli USA: tra gli anni ’70 e ’80 le Marine di UK, URSS, Spagna, Thailandia e Italia interpretarono a loro modo l’idea della portaerei leggera con capacità multiruolo e si dotarono per la prima volta di stormi imbarcati su velivoli STOVL (Harrier di varie versioni e Yak-38).

L’incrociatore pesante aero-missilistico Kiev, un connubio tipicamente sovietico tra portaerei e incrociatore con potenti capacità ASW e ASuW.

La seconda generazione di queste Sea Control Ship include la Cavour italiana, la Juan Carlos I spagnola e le sue derivate Canberra e Adelaide australiane; sono navi multiruolo con capacità aeree (F-35B o AV-8 Harrier in dismissione) ma che pongono l’accento sull’assalto anfibio. Anche la Anadolu turca è stata derivata dalla Juan Carlos I, ma al posto degli F-35B (negati dagli USA) porterà dei droni.

Cavour
Juan Carlos I

Un esempio modernissimo di portaerei leggere solo le LHA (Landing Helicopter Assault) americane della classe America, ovvero unità d’assalto anfibio polivalenti da 45.000 tonnellate. Il loro ponte continuo consente di operare con F-35B Lightning II, AV-8 Harrier, MV-22 Osprey e una varietà di elicotteri, quindi presentano una flessibilità operativa assoluta che spazia dalle missioni di combattimento all’aiuto umanitario. A volte ci si riferisce a queste unità come “Lightning Carriers” per sottolineare la capacità di lanciare una ventina di F-35B, ma in realtà non hanno le caratteristiche di sopravvivenza, la robustezza e i volumi delle portaerei “vere”. Sono da intendersi come navi da supporto anfibio in grado di schierarsi velocemente e di offrire appoggio aereo, ma non possono supportare settimane di operazioni aeree come farebbe una superportaerei; possiamo vederle come dei complementi alle portaerei più grandi, in grado di dare ai comandanti più opzioni tattiche.

USS Tripoli (LHA-7) con 20 F-35B

Il Giappone chiama “helicopter-carrying destroyer” (DDH) cioè “cacciatorpediniere portaelicotteri” le sue due navi classe Izumo, che sono nate come portaelicotteri e poi sono state modificate per accogliere gli F-35B; quindi sono di fatto delle portaerei che hanno ben poco del cacciatorpediniere! Sono le navi più grandi messe in mare dal Giappone dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, con un dislocamento doppio rispetto alle precedenti cacciatorpediniere portaelicotteri classe Hyuga. Il problema è che la costituzione giapponese vieta il possesso di armi offensive come le portaerei e quindi sono state categorizzate “destroyer”, peraltro con la piena approvazione di Washington, che è ben contenta di avere un alleato meglio armato in vista di un confronto con la Cina.

Confronto visivo tra classe Nimitz, Izumo e Hyuga.

Anche la Corea del Sud entrerà presto nel club degli utilizzatori di portaerei: d’altronde la vicinanza di vicini “difficili” come Corea del Nord e Cina obbliga Seoul a dotarsi di qualcosa di più rispetto alle LPH (Landing Platform Helicopter) classe Dokdo. Il progetto è noto come CVX Class e sarà una portaerei in grado di affiancare gli USA e il Giappone in eventuali missioni di proiezione anche lontano dalla penisola coreana. Secondo le prime rivelazioni, dovrebbe trattarsi di una portaerei da 30-40.000 tonnellate con ski jump, in grado di lanciare fino a 28 F-35B; tuttavia notizie più recenti parlano di una revisione molto ambiziosa del progetto CVX, che potrebbe diventare una CATOBAR o una STOBAR da 50.000 tonnellate e imbarcare i nuovi caccia KF-21 in versione navalizzata (FK-21N), ovvero con ali ripiegabili, compatibilità con catapulte e cavi d’arresto, vari interventi per rinforzare struttura e carrello. La decisione finale dovrebbe arrivare antro il 2033 e si vorrebbe la nuova portaerei in servizio per i primi anni ’30.

Concept Hyundai per la CVX, ancora nella “prima versione” da 30-40.000 tonnellate. Ricorda la Queen Elizabeth in scala.

Anche l’India, che al momento dispone delle portaerei STOBAR Vikramaditya e Vikrant, sta valutando due progetti: una versione migliorata della Vikrant; oppure una nuova grande portaerei da 65-75.000 tonnellate, forse dotata di catapulte, nota come Indigenous Aircraft Carrier 2 (IAC-2) o INS Vishal. Considerando la lentezza e le difficoltà che affliggono da sempre le realizzazioni militari indiane, è lecito attendersi tempi lunghi ed esiti incerti.

INS Vikrant. Si noti la somiglianza con la Shandong: entrambe le navi sono di produzione indigena ma derivate dalla classe Admiral Kuznetsov russa.

Come si vede, l’interesse per le portaerei è molto vasto, in particolare per le portaerei leggere (quasi nessuno le chiama Sea Control Ship), che sono più “abbordabili” delle superportaerei in termini di prezzo e di capacità industriali. Questo testimonia come la portaerei rimanga, nonostante le nuove minacce, un mezzo eccellente per proiettare potenza, creare deterrenza e offrire protezione alle proprie forze mantenendo una certa distanza dal nemico, che non sempre avrà i mezzi necessari per reagire. Pensiamo alle operazioni americane in Iraq e Afghanistan ma anche alla campagna libica del 2011: le portaerei hanno preso parte agli attacchi ma non sono mai state minacciate da alcunché.

Se pensiamo al quadrante che ci interessa, ovvero i mari attorno alla Cina con le relative dispute territoriali e zone di tensione, possiamo aspettarci una serie di scontri aeronavali e sbarchi che certamente hanno bisogno di massa, ma anche di flessibilità e rapidità. Non è un caso che i Marines abbiano abbandonato gli MBT Abrams in favore di veicoli più leggeri con buone capacità antiaeree e antinave. Se dovesse riproporsi la tattica di “island hopping” tra gli isolotti fortificati del Mar Cinese Meridionale, avere molte portaerei più piccole permetterebbe di distribuire la forza d’attacco su obiettivi multipli e saturare meglio le difese nemiche. Tante navi più piccole sono inoltre bersagli più difficili di poche navi grandi, fermo restando che le portaerei leggere sono sempre protette da cacciatorpediniere e fregate, proprio come i CBG delle superportaerei.

Un’ultima nota riguarda l’F-35 e le sue capacità, che sono due generazioni avanti rispetto all’Harrier. Una flotta di 15-20 F-35 non è poca cosa: è in grado di operare missioni ISR discrete, compiere attacchi terrestri e navali, minacciare le linee di rifornimento avversarie. Quindi anche portaerei relativamente piccole hanno un potenziale offensivo non trascurabile, impensabile fino all’avvento di questo velivolo.


PARTE III – Scenari di guerra

Ipotesi sull’attacco cinese

Lo scenario ideale per i cinesi sarebbe prendere i centri del potere politico-militare di Taiwan molto rapidamente, entro un paio di giorni, così da mettere il mondo di fronte al “fatto compiuto” e scoraggiare la formazione di una coalizione internazionale per liberare l’isola[7]. In quest’ottica è probabile che la Cina cerchi di colpire la capacità di comunicazione esterna e interna di Taipei, diversamente da quanto accade oggi in Ucraina, dove il presidente Zelensky non ha mai cessato di avere una presenza mediatica che ha influito sul morale degli ucraini e sulle decisioni della Comunità Internazionale[8].

Nella guerra moderna, riuscire a danneggiare o a disturbare i sistemi di comunicazione avversari significa alzare una cortina fumogena per nascondere le proprie intenzioni, rallentare la risposta avversaria e aumentare la confusione in generale. Quindi in caso di guerra possiamo tranquillamente aspettarci delle azioni cinesi contro il sistema di comunicazioni/telecomunicazioni di Taiwan.

La Cina può attuare principalmente 4 operazioni per attaccare Taiwan:

  1. Il blocco aereo e marittimo attorno all’isola, assieme ad attacchi cyber per disturbare le comunicazioni taiwanesi;
  2. Infiltrazione anticipata di forze speciali nell’isola, per attaccarne le infrastrutture strategiche e i leader politici. Le stesse forze potrebbero tentare di mettere in sicurezza le industrie di semiconduttori e impedirne la distruzione;
  3. Attacchi aerei e missilistici per neutralizzare i sistemi di difesa aerea, l’aviazione e altri obiettivi strategici;
  4. Attacco anfibio e lo sbarco sull’isola. Questa sarebbe dell’opzione più complessa e presuppone necessariamente il conseguimento della superiorità aerea e navale nello Stretto. Gli sbarchi anfibi sono una pratica di per sé molto difficile e pericolosa ma, se coronati da un successo, possono dare inizio alla fase di occupazione dell’isola.

Queste quattro operazioni possono essere condotte separatamente o in maniera coordinata, in sequenza o tutte assieme, a seconda della situazione strategica che si viene a creare.

Una delle ipotesi è che l’attacco a Taiwan venga mascherato con delle esercitazioni militari su larga scala attorno all’isola, commutate rapidamente in azioni di guerra; i primi bersagli sarebbero alcune isole controllate da Taipei ma più vicine alle coste cinesi, come Kinmem/Quemoy, Matsu (entrambe a pochi chilometri dal Fujian), seguite dalle Dongsha/Pratas e Pescadores/Penghu, che da anni sono tenute d’occhio dai droni e dai caccia cinesi. Questo potrebbe essere un primo tentativo cinese per convincere Taipei a piegarsi, rafforzando il messaggio con pesante disinformazione/PSYOPS, attacchi cyber, lanci simbolici di missili e un qualche colpo di mano da parte delle Forze Speciali infiltrate sull’isola (sabotaggi, rapimenti, attacchi mirati a strutture militari). Allo stesso tempo gli alleati di Taiwan e Taiwan stessa potrebbero essere tentati dal dubbio di non reagire di fronte all’occupazione di qualche isoletta insignificante.

Elaborazione da mappa di Limes, Laura Canali

Già in questa prima fase la risposta internazionale (di USA e Giappone in particolare) sarà un fattore critico che indurrà Taiwan a resistere o ad arrendersi. La “risposta” che Taiwan si attende è diplomatica ma anche militare, con USAF e US Navy pronte a schierarsi per intervenire innanzitutto con missioni antinave e OCA (Offensive Counter Air) attorno a Taiwan. È importantissimo infatti che l’isola non venga isolata da un eventuale tentativo di blocco navale cinese.

Se Taiwan decidesse di resistere, probabilmente la Cina passerebbe all’attacco in maniera massiccia lanciando centinaia di missili balistici a medio e corto raggio e missili da crociera contro i bersagli militari noti e le infrastrutture (aeroporti, porti, postazioni radar e centrali elettriche). Possiamo aspettarci un uso massiccio dell’aviazione che dovrà innanzitutto conquistare la superiorità aerea e tenere gli occhi bene aperti sul mare. Un forte schieramento aeronavale cinese, unito alla minaccia dei missili balistici antinave, mirerebbe a scoraggiare gli USA dall’intervenire seriamente e dal mandare aiuti a Taiwan.

Al raggiungimento (ipotetico) della superiorità aerea, le forze cinesi attraverseranno lo Stretto di Taiwan a bordo di navi d’assalto anfibio e navi cargo civili. La costa occidentale è pianeggiante e alcune zone si prestano bene per un assalto anfibio, per esempio tra Taichung e Taipei a nord e tra Tainan e Kaohsiung a sud; le scogliere sulla costa orientale invece rendono uno sbarco più complicato.

Ma quanti soldati cinesi sarebbero necessari per uno sbarco a Taiwan? Proviamo a fare qualche calcolo approssimativo. Se assumiamo che Taiwan può schierare 200.000 uomini, la “regola del 3:1” per l’attaccante dice che i cinesi avrebbero bisogno di almeno 600.000 uomini; però contro truppe fortificate e in ambiente urbano si tende a preferire la “regola del 5:1”, che ci porta alla bellezza di 1 milione uomini come minimo[9]. Un contingente di queste dimensioni porta con sé altre due necessità sostanziali: occorrono spazi opportuni dove radunare così tanti uomini prima dell’invasione (possibilmente senza farsi notare troppo), e poi servono tantissimi mezzi per farli sbarcare e per assicurare i collegamenti logistici. Non sono questioni di poco conto e infatti Pechino sta addestrando tanti Marines e sta costruendo tante navi proprio per rispondere a tali necessità.

È evidente che la strategia cinese si sta facendo più complessa con il crescere delle sue capacità militari. Negli ultimi anni infatti i cinesi hanno esteso i pattugliamenti e le esercitazioni oltre lo stretto e oltre la tradizionale zona a sud-ovest di Taiwan, allargandosi alla zona nord-est; quindi è possibile che vengano prese di mira altre zone oltre a quella occidentale.

Ad agosto 2022, la PLAN ha condotto massicce esercitazioni con munizionamento reale (incluso il lancio di missili balistici) in 6 zone attorno all’isola, interrompendo il traffico marittimo e simulando di fatto il blocco di Taiwan. Al di là degli aspetti politici e diplomatici[10], questa esercitazione è interessante perché ha permesso ai cinesi di provare un accerchiamento/isolamento completo dell’isola attraverso bolle A2/AD; se queste “bolle” fossero abbastanza valide da bloccare Taiwan e da dissuadere i suoi alleati dall’intervenire, allora la Cina potrebbe davvero pensare di attaccare.

Da parte taiwanese ci si prepara da anni a resistere a un attacco cinese, con tenacia ma anche con realismo: è dato per scontato che Aeronautica e Marina subiranno gravi perdite ma ci si aspetta che la maggior parte dei sistemi d’arma mobili, più piccoli e dispersi, sopravviveranno. Tra questi ci saranno i missili antinave montati su veicoli, piccole imbarcazioni, lanciarazzi multipli (MLRS) e missili mobili. Non appena le forze da sbarco cinesi si avvicineranno a Taiwan, le forze militari taiwanesi lanceranno attacchi mirati dal mare, dalla costa e dall’aria puntando le navi-comando nemiche e le navi da sbarco anfibio.

Se la forza d’invasione riuscirà comunque a sbarcare, l’Esercito taiwanese adotterà una strategia di “difesa in profondità” per logorare e rallentare il nemico, con il contributo delle “homeland defense units” volontarie che condurranno operazioni di guerriglia nelle aree urbane e montuose.

La strategia del porcospino

Nel 2008, il professor William Murray del Naval War College formulò per la prima volta[11] quella che divenne nota come la “Strategia del Porcospino” per la difesa di Taiwan. Anche in questo caso è una strategia legata alla deterrenza che potremmo riassumere in una frase: se ci attaccate, risponderemo con tutto quello che abbiamo e pagherete un prezzo talmente alto da farvi pentire di averlo fatto. Certo, se guardiamo alla sproporzione delle forze e delle risorse in campo verrebbe da dire che Taiwan ha poche chance, ma proprio per questo adottare una strategia di dissuasione ha molto senso per le seguenti ragioni:

  • Attaccare un’isola presenta molte complicazioni per l’attaccante; gli inglesi conoscono bene l’importanza dei pochi chilometri di mare che li separano dal continente europeo!
    I 140 km che separano Taiwan dalla costa cinese rappresentano una prima opportunità per stroncare l’invasione sul nascere e per “alzare il prezzo” per l’attaccante. Quindi per Taiwan è prioritario investire in un’aviazione forte, in sistemi antiaerei/antinave e in una Marina dedicata alla difesa costiera per negare alle forze aeronavali cinesi il controllo delle acque e delle coste attorno all’isola; viceversa, non ha molto senso investire in un grande esercito che contrasti le forze cinesi quando sono già approdate sull’isola. Inoltre la rete stradale taiwanese è ben sviluppata e questo aiuterà le forze terrestri a spostarsi rapidamente ove necessario.
  • Taiwan presenta un’orografia difficoltosa per un invasore: sul lato occidentale che dà stretto troviamo zone pianeggianti parzialmente adatte ad uno sbarco ma anche grandi città; il lato orientale presenta qualche piccola pianura vicino alla costa ma per il resto è montagnoso; il centro dell’isola è dominato da alte montagne con fitte foreste, rendendo l’attraversamento est-ovest alquanto complicato. Se i cinesi dovessero sbarcare a ovest, la zona est rimarrebbe in qualche misura protetta e fornirebbe un retroterra strategico da dove continuare a combattere.
  • Sebbene riconosciuta ufficialmente da pochi Paesi, Taiwan beneficia di un notevole supporto internazionale, in primis dagli USA, che sono i principali fornitori di materiali militari dell’isola. La ragione è chiara: Taiwan deve resistere da sola meglio che può in attesa che arrivino i soccorsi dai Paesi amici, aspettandosi che la “Comunità Internazionale” dia un contributo ben più “deciso” rispetto a quanto fatto con l’Ucraina.
  • Il “fattore morale” di chi combatte per la sua sopravvivenza ha certamente un peso, Ucraina docet. A Taiwan ci si sforza di dare l’immagine di un popolo unito che combatterà fino alla fine per la propria indipendenza.

La strategia dissuasiva finora ha funzionato; forse non funzionerà per sempre ma è servita a guadagnare tempo per migliorare lo strumento militare e rendere più credibile la deterrenza stessa. A proposito di questo, Taiwan ci tiene a far sapere quanto sono moderni ed efficienti i suoi sistemi d’arma e che cosa acquisterà in futuro; mostrare i muscoli e fare esercitazioni fa parte della deterrenza. 

Naturalmente Taiwan non può permettersi di aspettare e sperare che la deterrenza funzioni, quindi si è organizzata per affrontare un attacco cinese; i vari princìpi difensivi sono raccolti nell’Overall Defence Concept che definisce come impiegare i vari asset nei 3 livelli di difesa seguenti, che possiamo immaginare come 3 cerchi concentrici attorno all’isola:

  • Il cerchio più esterno è costituito dall’intelligence e dall’acquisizione d’informazioni in tempo reale; idealmente si vorrebbero conoscere in anticipo i piani cinesi così da poter agire/reagire immediatamente.
  • Il secondo cerchio è la difesa sul mare, dove la Marina e l’Aeronautica devono riuscire ad arrecare più danni possibile alla forza d’invasione anfibia, contendere la superiorità aerea e navale al nemico e guadagnare più tempo possibile per ottenere aiuti dall’esterno.
  • Il terzo livello di difesa è la lotta sull’isola stessa, e si attiva qualora lo sbarco riesca. Le tattiche di combattimento non escludono guerriglia in ambiente urbano e montano, insistendo su contrattacchi rapidi, camuffamento, inganno. In questo contesto trova applicazione anche l’impiego di riservisti, una forza che può arrivare a 2 milioni di uomini (il servizio militare obbligatorio è stato portato da 4 a 12 mesi) ma che naturalmente non è tutta combat e che non avrà lo stesso livello di efficienza delle forze regolari.

In aggiunta a questi 3 livelli di difesa, un sistema di allerta precoce si occupa d’intercettare missili e aerei che certamente faranno da preludio allo sbarco. Il sistema difensivo è ridondante, le basi si proteggono a vicenda e probabilmente molte installazioni si trovano dentro le montagne; questo fa di Taiwan una preda per nulla facile.

In anni recenti Taiwan si è configurata per affrontare un’invasione cinese secondo una strategia asimmetrica; d’altronde la disparità di risorse rende impensabile combattere la Cina in una tradizionale guerra simmetrica, carro contro carro, fante contro fante, nave contro nave. Un approccio asimmetrico invece permetterebbe a Taiwan di difendersi in maniera credibile puntando su tanti mezzi piccoli e sfuggenti: sistemi antiaerei e antinave mobili, MANPADS, droni, mine navali, naviglio sottile come le motomissilistiche permetterebbero di distribuire la minaccia, logorare l’assalto cinese e aumentare le proprie probabilità di sopravvivenza. Quest’idea è rafforzata dall’esperienza della guerra russo-Ucraina in cui la parte “più debole” ha impiegato una quantità di armi relativamente leggere e mobili che hanno messo in grave difficoltà i russi, dotati di mezzi aerei e terrestri ben superiori; basti pensare all’importanza dei MANPADS, dei missili controcarro e dei SAM mobili.

Ciò detto, a Taipei regna un approccio molto realista: la strategia difensiva del Paese è pensata soprattutto per guadagnare tempo e per infliggere al nemico più danni possibile nell’attesa dell’aiuto internazionale, sperando di arrivare a un accordo di pace prima che i soverchianti numeri cinesi travolgano l’isola.

Venendo al supporto americano, per decenni gli Stati Uniti hanno alimentato i dubbi su un loro effettivo intervento a fianco di Taiwan: è la cosiddetta teoria della “ambiguità strategica” cioè la creazione deliberata d’incertezza per generare una deterrenza più efficace. Possiamo far partire questa “ambiguità” con la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Washington e Pechino del 1971, con il conseguente abbandono della politica delle “due Cine” e il riconoscimento della Repubblica Popolare come “unica Cina” nel 1979. Questo è stato ovviamente uno smacco politico per Taiwan, che però è stato controbilanciato da un costante appoggio militare ed economico (fabbriche di giocattoli e microprocessori) che ha fatto la fortuna dell’isola.

Per decenni gli USA hanno camminato sul filo per sostenere Taipei ma senza irritare oltremodo Pechino: va bene appoggiare Taiwan con armi e fondi, ma Washington ha negato a Taipei gli F-35 e le armi nucleari, e non vuole assolutamente che l’isola dichiari formalmente la sua indipendenza. Allo stesso modo, gli USA non hanno né basi né una presenza militare ufficiale a Taiwan, però si addestrano con le Forze Armate taiwanesi da anni proprio come avviene con altri Paesi amici della regione. Tutto questo perché nessuno vuole dare alla Cina il pretesto per iniziare una guerra.

Solo in anni recenti il supporto americano a Taiwan è diventato più esplicito, con il presidente Joe Biden che ha più volte dichiarato che gli USA interverranno in difesa di Taiwan qualora fosse attaccata. Evidentemente la strategia dell’ambiguità strategica sta cedendo il passo alla deterrenza pura e semplice.

Il riarmo di Taiwan

Per quanto la strategia del porcospino sia generalmente considerata adeguata, va anche fatto notare che è una strategia piuttosto “passiva”, difensivista, limitata alla mera negazione dell’aria e del mare all’avversario, priva della capacità di minacciare il suolo cinese. Il presidente Tsai Ing-wen, in carica dal 2016 e prima donna presidente di Taiwan, pare aver deciso di cambiare rotta: dopo anni di budget della Difesa stagnanti, Taiwan si appresta ad acquisire nuove armi e mezzi che aggiungeranno nuove opzioni strategico-operative.

L’ambito aeromissilistico farà la parte del leone. Gli USA forniranno 135 missili cruise AGM-84H SLAM-ER (Standoff Land Attack Missile – Expanded Response, derivato dell’Harpoon antinave in grado di colpire con precisione anche bersagli terrestri), 100 missili antiradar AGM-88 HARM e 200 missili aria-aria AIM-120C-8 (che è la versione più avanzata disponibile dell’AMRAAM). Tutti missili premium graditissimi all’Aeronautica, che sta aggiornando 141 vecchi F-16A/B all’avanzatissimo standard F-16V, cui si aggiungeranno 66 F-16V nuovi in arrivo dalla seconda metà del 2024. Sarà la flotta di F-16 più grande dell’Asia.

Inoltre si sta investendo massicciamente per acquisire un migliaio di missili Hsiung Feng 3, un missile antinave supersonico con capacità di attacco al suolo e gittata di 400km (versione extended range), e per immettere in linea il missile cruise Hsiung Feng 2 (HF-2E) con gittata aumentata a 600 km o più[12]. Questi missili possono essere impiegati per colpire la flotta d’invasione quando ancora si trova nei porti e aggiungono valore alla deterrenza taiwanese in quanto arma di rappresaglia in grado di raggiungere il territorio cinese. Ad essi si aggiunge il segretissimo missile da crociera supersonico Yun Feng, accreditato di una gittata tra 1.500 e 2.000 km quindi in grado di raggiungere anche Pechino.

Hsiung Feng 2
Hsiung Feng 3

La difesa costiera sarà molto rinforzata con l’arrivo di ben 400 missili antinave RGM-84 Harpoon con lanciatori terrestri (Harpoon Coastal Defense System). Si tratta della versione da lancio terrestre con booster aggiuntivo del famoso missile Harpoon.

La difesa antimissile è un’altra priorità, come dimostra l’acquisizione di un centinaio di Patriot PAC-3 con spiccate capacità di difesa antimissile (vedi live #151 su Parabellum). Questi sistemi saranno dedicati alla difesa delle città principali e di obiettivi militari.

Nel 2026 dovrebbero arrivare anche 29 lanciatori M142 HIMARS (in precedenza dovevano essere solo 11), inclusi i missili balistici a corto raggio ATACMS con gittata di 300km.

Taiwan sta anche avviando lo sviluppo di una nuova classe di sottomarini sotto il programma IDS (Indigenous Defence Submarine), con l’idea di avere il primo di 8 vascelli completato nel 2025; obiettivi alquanto ambiziosi per la cantieristica nazionale, che tuttavia beneficerebbe di un certo apporto tecnologico estero. Si tratterebbe di sottomarini a propulsione diesel-elettrica dal design moderno, ideali per le cosiddette “brown waters” attorno all’isola e armati con il siluro pesante Mk48 Mod6 AT. La loro acquisizione aprirà a una varietà di opzioni strategiche: minacciare il traffico mercantile cinese, pattugliare da vicino le basi cinesi, fleet in being in caso d’invasione.

La Marina sta acquisendo anche alcune corvette classe Tuo Jiang, caratterizzate da scafo catamarano e da discrete caratteristiche stealth; sono in grado di lanciare missili cruise Hsiung Feng 2 (HF-2E) con gittata di oltre 300km e missili antinave Hsiung Feng 3. Anche qui si vede la volontà di “allungare il braccio” e di puntare su naviglio relativamente piccolo con maggiori probabilità di sopravvivenza.

Interessante anche l’acquisizione di un centinaio di carri Abrams M1A2T (che è una versione custom derivata dall’M1A2 System Enhancement Package Version 2, SEPv2). I primi arriveranno già nel 2024 e saranno integrati in una rete di bunker corazzati per aumentare la survivability di tutti i mezzi. Si noti bene che i vecchi carri M60A3 (circa 900) saranno mantenuti in servizio: il grosso delle forze da sbarco cinesi saranno mezzi anfibi relativamente leggeri, contro i quali anche i cannoni da 105mm dei Patton avranno una buona efficacia. Nello stesso solco si pone l’acquisizione di 400 missili Javelin e 1.700 lanciatori TOW con il missile modificato per impiego antinave.

Insomma, il nuovo corso strategico di Taiwan sembra voler bilanciare il tradizionale approccio strategico “asimmetrico” con un ventaglio di opzioni più “simmetriche” per portare la guerra in casa del nemico. D’altronde una delle maggiori limitazioni dell’Ucraina è la scarsa capacità di colpire in profondità la Russia (aviazione e missili) e questo può aver condizionato le scelte di Taiwan.
Ad oggi è difficile dire se la scelta del presidente Tsai Ing-wen sia corretta o meno; il rischio è di disperdere le risorse in troppe direzioni, trascurando la difesa dell’isola “by denial” che dovrebbe essere la priorità. Di certo comporta una crescita importante del budget militare (da 10 miliardi di USD nel 2012 a 19 miliardi nel 2022) e resta da vedere se Taiwan può permetterselo in prospettiva futura.

Al di là di tutte queste considerazioni militari, difendersi da un avversario non è solo questione di armi e strategie: c’è anche un importante aspetto politico-diplomatico. La priorità assoluta è il consolidamento della relazione con gli Stati Uniti, senza le cui armi Taiwan non potrebbe nemmeno lontanamente sperare di difendersi (il resto del mondo non fornisce nulla d’importante a Taiwan per evitare d’indispettire Pechino; solo la Francia ha fornito una cinquantina di caccia Mirage2000-5 negli anni ’90). L’industria militare locale dà il suo contributo soprattutto in ambito missilistico, aeronautico (il caccia multiruolo leggero F-CK-1 Ching Kuo o Indigenous Defense Fighter, che sembra un ibrido tra F-16 e F/A-18) e IFV (il CM-32, un ruotato 8×8 finalmente in produzione dopo anni di sviluppo travagliato), ma non è assolutamente in grado di coprire i bisogni nazionali.

Infine c’è la “soft diplomacy”: Taiwan contrasta la propaganda/disinformazione pro-Cina che investe la sua società, promuove lo sviluppo economico nella regione per generare attorno a sé un consenso crescente e intensifica i rapporti con i Paesi limitrofi. Con queste azioni Taiwan contrasta le stesse azioni ad opera della Cina e soprattutto, tenta di scoraggiare un confronto militare che, finisca come finisca, arrecherà all’isola un livello di distruzione estremo.

F-CK-1 Ching Kuo

Taiwan e Ucraina

La guerra russo-ucraina viene osservata molto attentamente da Pechino, che è molto interessata sia allo svolgimento delle operazioni militari sia all’analisi del supporto internazionale dato a Kiev. I paralleli tra Taiwan e Ucraina non mancano: entrambe sono nazioni più piccole e militarmente più deboli (almeno sulla carta) dei loro avversari, i quali vorrebbero acquisire una parte o la totalità del loro territorio; entrambe contano sull’aiuto internazionale per resistere; entrambe sono decise a lottare per la loro indipendenza.

Taiwan conta molto sui suoi alleati, ma i tentennamenti occidentali nel supportare Kiev sembrano aver rafforzato l’intenzione di Taiwan d’investire di più nelle Forze Armate così da crearsi un deterrente proprio. Come se non bastasse, l’aggressore russo non è stato né isolato politicamente né messo in ginocchio dalle sanzioni internazionali, quindi la Cina potrebbe sfruttare il suo potere economico e politico per gestire le conseguenze di una guerra meglio di come ha fatto la Russia.

Se Taiwan e Ucraina presentano delle analogie, va però anche detto che le due situazioni presentano delle notevoli differenze che, se analizzate con attenzione, scoraggiano un’invasione cinese di Taiwan.

Tanto per cominciare, manca il fattore sorpresa: Taiwan si prepara a contrastare uno sbarco cinese da anni e ha già rinforzato con bunker e tunnel sotterranei 14 spiagge adatte ad uno sbarco. Inoltre la necessità di concentrare una massa enorme di uomini e mezzi sulla sponda sud del Fujian in preparazione allo sbarco non passerebbe inosservata e avverrebbe con tutta probabilità in 2 periodi (autunno e primavera) per evitare le stagioni monsoniche con il relativo maltempo. Il conflitto russo-ucraino sta mostrando chiaramente quanto sia difficile ottenere risultati in assenza di sorpresa, con un campo di battaglia reso “trasparente” dai droni, dagli asset ISR e dalle informazioni che girano sui social media.

Stiamo comunque parlando di un’operazione terrestre: un’invasione via mare sarebbe molto più complessa, difficile e costosa, soprattutto se il nemico è pronto per respingerla. Come se non bastasse, la PLAN non ha nessuna esperienza di sbarchi e ne ha poca di battaglie navali; le scaramucce con il Vietnam non fanno testo e andare a rivangare i secoli passati non ha senso! A questo si aggiunge l’incubo logistico di rifornire una forza d’invasione di un milione di uomini e di centinaia di mezzi attraverso un mare conteso, ma a onor del vero la stessa difficoltà si presenterebbe anche agli Stati Uniti e ai loro alleati intenti a supportare Taiwan.

Ma anche ammettendo una vittoria cinese, che senso avrebbe dominare su un’isola ridotta in macerie e su una popolazione ostile che sicuramente farà saltare i gioielli dell’industria nazionale (elettronica e microprocessori) per non farli cadere in mano al nemico? Al prezzo di migliaia di soldati morti (figli unici in una società sempre più vecchia, si badi bene!) e con un apparato aeronavale pesantemente deteriorato? Senza contare le sanzioni economiche e i danni subìti sul territorio cinese, che comprometterebbero pesantemente l’economia del Paese per anni.

Un’ultima importante differenza tra Ucraina e Taiwan riguarda il rispettivo “peso industriale”. Mentre l’Ucraina conta poco a livello industriale mondiale, a Taiwan si produce il 68% dei microchip “generici” e il 90% dei microchip di ultima generazione del mondo. Un blocco dell’isola o la distruzione delle fabbriche porterebbe a una catastrofe industriale mondiale dalle ricadute imprevedibili; ci ricordiamo bene gli effetti del “world chip shortage” post-covid. I Paesi più colpiti sarebbero le economie avanzate: USA, UE, Giappone e… Cina! Questo suggerisce due cose: primo, gli USA e i loro alleati avrebbero molto interesse a difendere militarmente Taiwan allo scopo di tutelare la propria industria, proprio come intervennero contro l’Iraq nel 1990-91 per difendere l’accesso al petrolio arabo; secondo, la Cina stessa riceverebbe un danno enorme dalla mancanza dei chip taiwanesi, visto che produce internamente solo il 16% dei chip che usa e ne importa da Taiwan per oltre 400 miliardi di dollari l’anno. È possibile che queste considerazioni (il probabile intervento occidentale e un drammatico chip shortage) scongiurino un attacco cinese a Taiwan.

Infine, una breve considerazione sul “morale”: Sun Tzu diceva di lasciare una via di fuga a un nemico accerchiato, perché un animale atterrito lotterà fino alla fine. A differenza degli ucraini, che possono scappare varcando un confine terrestre, i taiwanesi non potrebbero fuggire facilmente dalla loro isola sotto attacco e quindi non avrebbero altra scelta che combattere fino all’ultimo uomo, sfruttando montagne, foreste e città per infliggere il massimo danno possibile ai cinesi, nella speranza che mollino per primi il colpo.

Come si vede da queste brevi considerazioni, attaccare Taiwan presuppone una quantità di difficoltà e di conseguenze che la Russia non ha dovuto affrontare nell’attaccare l’Ucraina. Xi Jinping tra l’altro si sta dimostrando più cauto di Vladimir Putin e l’andamento della guerra in Ucraina potrebbe aver convinto il presidente cinese che invadere Taiwan sarebbe troppo gravoso.
Se così fosse, è possibile che si scelgano forme alternative al conflitto diretto, per esempio un blocco aeronavale. Il blocco aeronavale potrebbe avere inizio con una finta esercitazione su ampia scala attorno a Taiwan, come quella del 2022; mentre gli USA e il mondo discutono su come rispondere, la Cina inizia una guerra ibrida e/o tenta un colpo di mano per destituire rapidamente il governo di Taipei, evitando quindi di passare la soglia del conflitto militare aperto. In questa situazione di alta tensione ma non di guerra aperta, il mondo farebbe molta fatica a reagire con decisione; ci sarà “qualcuno” pronto a sparare per primo alle navi cinesi per forzare il blocco, sapendo di innescare un conflitto su ampia scala e potenzialmente nucleare?

Un’altra possibilità è che la guerra s’inneschi in seguito a un incidente (vero o inscenato), ipotesi tutt’altro che remota viste le decine di sconfinamenti aerei e navali che si registrano ogni anno e che hanno il duplice scopo di testare le difese taiwanesi e di tenere sotto pressione Taipei. Anche in questo caso, chi avrà veramente la forza di prendere le armi per un “incidente”?

Sembra invece tramontata l’ipotesi di una riunificazione pacifica e volontaria: la Cina ha tentato di convincere i taiwanesi che tornare sotto l’ala di Pechino non sarebbe poi così male, ma la repressione di Hong Kong e la gestione del Covid hanno mostrato il vero volto del regime (come se ce ne fosse stato bisogno!). Negli anni ’90 i taiwanesi hanno intrapreso un percorso di democratizzazione che ha portato con sé un livello elevato di prosperità, libertà civili e accesso al mercato mondiale; i sondaggi mostrano che non sono pronti a rinunciare a tutto questo per fare la fine di Hong Kong.

Esiste comunque una fazione minoritaria, circa il 10% della popolazione, che è favorevole alla riunificazione dell’isola con la Cina; è rappresentata da partiti politici pro-unificazione sospettati di essere finanziati da Pechino e di diffondere notizie pro-Cina per cercare d’influenzare l’opinione pubblica, soprattutto via social media. Segnaliamo poi che il Kuomintang, ovvero il Partito Nazionalista, sostiene la necessità di mantenere rapporti amichevoli con la Cina continentale e mantiene contatti diretti con il Partito Comunista Cinese. Il Kuomintang è all’opposizione nel parlamento nazionale ma esprime il sindaco di Taipei (che tra l’altro è il pronipote di Chiang Kai-shek), quindi non è esattamente un partito marginale!

Deterrenza e wargame

Lo scenario di una guerra tra Cina e Taiwan è considerato probabile, tanto che tutti i Paesi potenzialmente coinvolti hanno cercato d’immaginare come tale conflitto potrebbe svolgersi. Uno dei metodi di previsione e pianificazione sono i wargame, delle simulazioni molto complesse che tentano di anticipare l’andamento di una guerra a seconda degli scenari che interessa analizzare.
Nel gennaio 2023, il CSIS (Center for Strategic and International Studies) ha realizzato un wargame[13] ipotizzando un attacco anfibio cinese su Taiwan sotto vari scenari; si tratta probabilmente dell’analisi più recente e più accurata resa pubblica sul tema. Sono state fatte 24 simulazioni cambiando diverse condizioni di base; in questa sede non daremo conto di tutti i risultati e nemmeno suggeriamo di prendere questi risultati come Vangelo, ma alcune conclusioni generali sono interessanti e meritano di essere considerate.

Vediamo ora alcuni scenari del wargame; ogni scenario è stato ripetuto più volte in modo da creare un minimo di base statistica su cui fare analisi.

  • Scenario di base, che possiamo definire come il più bilanciato: una coalizione a guida USA risponde all’invasione di Taiwan. Nella maggior parte dei casi, i cinesi non riescono a sbarcare e Taiwan “vince”. Fatto interessante, ogni volta la US Navy perde almeno 2 portaerei (a causa dell’esaurimento dei missili antiaerei dei carrier battle group, in seguito a ripetuti attacchi di saturazione con missili antinave cinesi) e centinaia di velivoli; Taiwan perde tutta la sua Marina e una quantità enorme di aerei. In breve, Taiwan sopravvive ma ad un costo altissimo.
  • Scenari pessimistici: si presuppone una mobilitazione lenta degli USA, incompetenza dei taiwanesi e non-volontà americana di colpire il territorio cinese. Ovviamente questo scenario è più favorevole alla Cina ma nella maggior parte dei casi la guerra finisce in uno stallo, funestato da perdite taiwanesi ancora più elevate rispetto allo scenario di base.
  • Scenari ottimistici: ottima cooperazione USA-Giappone, cinesi esitanti a utilizzare il loro arsenale missilistico, aerei e piloti alleati migliori. Il risultato è stato ovviamente una sconfitta cinese con la perdita totale della sua flotta da sbarco e della maggior parte della Marina; le perdite alleate sono state inferiori.

Volendo tirare delle conclusioni generali da questi wargame, Taiwan può sopravvivere a un’invasione solo se gli Stati Uniti intervengono pesantemente con tutto il loro strumento militare, in particolare usando grandi quantità di missili antinave a lungo raggio e sfruttando le basi in Giappone. Ma questo risultato positivo giunge al prezzo di dozzine di navi (tra cui 2 portaerei americane nelle fasi iniziali dello scontro), tra 200 e 500 aerei e migliaia vite perdute tra tutti gli alleati; le forze cinesi risultano altrettanto martoriate mentre Taiwan stessa viene devastata, in particolare le sue infrastrutture civili.
La Cina è risultata vincitrice solo nel caso di un totale non-intervento americano, ma anche in questo caso Taiwan ne è uscita materialmente distrutta. Anche nello scenario più pessimistico, Taiwan ha qualche chance di farcela se gli USA intervengono militarmente.

Tutti gli scenari prefigurano perdite umane e materiali enormi per tutte le parti, indipendentemente dal risultato; questo conferma l’estrema letalità degli armamenti moderni (che abbiamo già notato in Ucraina) e le dimensioni del conflitto, che andrà a coinvolgere i “pesi massimi” del pianeta.

Un altro dato interessante è che la maggior parte dei velivoli risultano distrutti al suolo dagli attacchi missilistici in apertura del conflitto, e questo sostanzia la preoccupazione dell’USAF per la vulnerabilità delle basi (Okinawa e Guam in particolare) cui abbiamo accennato in altre sedi. Quindi, secondo le simulazioni, lo scontro sarebbe essenzialmente uno scambio missilistico a lungo raggio, con il risultato finale pesantemente dettato dalla quantità di missili disponibili e da chi attacca per primo; l’importanza dei caccia cade in secondo piano rispetto ai bombardieri dotati di missili a lungo raggio. Il CSIS sottolinea anche che la validità della strategia del porcospino, in particolare l’uso dei 400 missili antinave Harpoon recentemente acquistati che hanno indebolito molto l’offensiva navale cinese.

Lo studio suggerisce inoltre di dare maggiore importanza a navi più piccole dotate di maggiore probabilità di sopravvivenza, ai sottomarini e ai missili ipersonici che sono più difficili da intercettare. Quindi l’allarme americano attorno alla crescita navale cinese è comprensibile, ma dovrebbero preoccupare molto di più gli sviluppi in ambito missilistico (specialmente missili antinave e ipersonici) e dei droni autonomi (vedi live #240 e #246 su Parabellum). Per inciso, il wargame del CSIS non dice nulla sulle portaerei cinesi, poiché allo stato attuale non c’è molto da dire sulle loro capacità operative; sono ancora in una fase iniziale in cui ci si preoccupa delle procedure antincendio, della corrosione, delle operazioni di base e dell’addestramento del personale. Insomma non sono ancora una minaccia tangibile. La storia cambierà con la prossima generazione di portaerei, diciamo tra 10-15 anni, quando la PLAN avrà a disposizione uno strumento aeronavale con capacità operative serie.

Il CSIS spiega anche che il Dipartimento della Difesa ha condotto altri wargame “confidenziali” i cui esiti arridono maggiormente alla Cina. I dettagli non sono noti ma sono immaginabili: queste simulazioni restituiscono risultati diversi in base a parametri di base diversi, quindi lo “scenario pessimistico” del CSIS potrebbe non essere “abbastanza pessimistico” per il DoD, il quale ha voluto indicare dei parametri di base differenti.

Il tema delle armi nucleari non è contemplato nel wargame, che si limita a scenari convenzionali nella consapevolezza che USA e Cina sono potenze nucleari mentre Taiwan non ne ha; il Giappone è una “potenza nucleare virtuale” cioè non ha armi nucleari ma avrebbe il know-how per costruirle. Uno scontro militare nel Pacifico porta con sé la possibilità concreta di un’escalation nucleare e allora la domanda che ci si pone è: fino a che punto si è disposti ad arrivare per difendere Taiwan o per conquistarla? In altre parole: Taiwan vale il rischio di una guerra nucleare (per entrambe le parti)?

Durante la Guerra Fredda ci si chiedeva se gli USA sarebbero veramente stati disposti ad arrivare “fino in fondo” in caso d’attacco sovietico; si è teorizzato sulla possibilità di escalation dalla guerra convenzionale all’uso delle armi nucleari tattiche fino all’arsenale strategico. Le stesse considerazioni si possono fare anche per Taiwan. E per quanto sia probabile che nessuno voglia un’apocalisse nucleare, è anche vero che la risposta non è affatto certa. La possibilità di uno scambio nucleare aggiunge agli scenari del CSIS, già di per sé abbastanza distruttivi, un’ulteriore nota di tragicità. Questo ci riporta alla deterrenza e alla strategia del porcospino, che DEVONO funzionare! L’alternativa è uno scenario da incubo fatto di morte e distruzione su cui incombe una minacciosa ombra nucleare.


PARTE IV – La caduta degli imperi

Imperi ed egemonia

La crescita cinese ha coinvolto e coinvolge tutti i settori, dalla finanza all’industria, dalla tecnologia al settore militare; si tratta di un Paese immenso con enormi risorse naturali e umane, retto da un regime autoritario che ha una presa strettissima sulla popolazione. Per quanto il regime di Pechino sia stato messo duramente alla prova negli ultimi anni a causa della gestione del covid, della frenata dell’economia e della contrazione demografica con relativo invecchiamento della popolazione, è indubbio che la crescita cinese abbia messo e metterà in discussione gli equilibri politici mondiali tanto da farne lo sfidante più accreditato all’egemonia americana.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, vengono indicati da più parti come un impero in declino, una superpotenza già destinata a cedere il primato alla Cina. Tra le ragioni troviamo: un gap tecnologico e industriale sempre più ridotto; il popolo americano sempre più polarizzato politicamente e, secondo qualcuno, sull’orlo di una guerra civile; una certa “stanchezza” per le molteplici guerre di Washington. Proprio l’aspetto militare risulta alquanto preoccupante visto che i recenti rovesci in Asia centrale hanno gettato un’ombra sul prestigio delle Forze Armate americane e di conseguenza sul loro potere attrattivo verso nuovi soldati, tanto che risulta sempre più difficile centrare gli obiettivi annuali di arruolamento di nuove reclute.

Quanto c’è di vero in questa “caduta” degli USA? Innanzitutto bisogna fare la tara dell’antiamericanismo e del sensazionalismo, che portano ad esasperare impropriamente certi segnali di difficoltà. Cercando di rimanere equilibrati, possiamo dire che tutti gli imperi della storia nascono, prosperano e muoiono… prima o poi! Anche l’impero americano prima o poi cadrà, ma aspettarsi che cada domattina è un po’ esagerato. Ci sono i segni del declino? Sì, ma è un declino relativo perché altri stanno “colmando il gap”, non è un tracollo; quindi affermare che ci sono i segni di una prossima caduta pare francamente esagerato.

Un conflitto Cina-Taiwan avrebbe un ruolo chiave per definire il futuro dei due imperi. Ovviamente, nel caso in cui gli Stati Uniti riuscissero a difendere l’indipendenza di Taiwan ne uscirebbero politicamente rafforzati, altro che caduta! Al contrario, se la Cina conquistasse Taiwan, probabilmente l’impero americano entrerebbe in una fase di crisi ma non crollerebbe il giorno dopo. E in ogni caso bisogna vedere COME la Cina vincitrice uscirebbe dal conflitto; in altre parole, che prezzo ha pagato per la vittoria. Per esempio, se l’occupazione di Taiwan costasse molte perdite di equipaggiamenti militari, molte vite umane e gravi danni infrastrutturali e industriali, la Cina si troverebbe esposta a una serie di Paesi limitrofi che trarrebbero l’occasione per regolare qualche conto, magari sui territori contesi; senza contare il dissenso interno, che potrebbe mettere in crisi il regime.

Qui si vedono tre grossi vantaggi degli USA rispetto alla Cina:

  1. C’è l’intero Oceano Pacifico tra Taiwan e la costa ovest degli Stati Uniti, mentre la Cina si troverebbe a combattere la guerra sulla porta di casa con il rischio concreto che la zona costiera e le sue infrastrutture (cantieri navali in primis) siano fatti oggetto di bombardamenti aeromissilistici. Gli Stati Uniti invece non dovrebbero affrontare nulla del genere, a meno che non si arrivi ad un attacco nucleare intercontinentale.
  2. Le basi americane in Asia e il sistema di alleanze attive nella regione permettono di scegliere tra varie opzioni strategiche, difendere gli alleati e minacciare i traffici commerciali cinesi allo stesso tempo. In altre parole, gli Stati Uniti possono mantenere una forte pressione militare sulla Cina e impedirle d’importare le materie prime di cui ha bisogno per prolungare il suo sforzo bellico.
  3. La Cina ha ben pochi “amici”, i quali non hanno tanta voglia di scendere in guerra con gli Stati Uniti e i loro alleati; forse le uniche eccezioni sarebbero la Russia (che darebbe una mano senza esporsi troppo, come la Cina fa con lei rispetto alla guerra russo-ucraina) e la Corea del Nord (che al di là dei proclami bellicistici esprime una forza militare di scarso valore).

Tutto questo per dire che fare previsioni sulla caduta dell’impero americano è abbastanza avventato, soprattutto se la si vuole legare a uno scontro o ad un episodio specifico. Inoltre, tanti analisti e giornalisti danno per scontato che la Cina diventerà una superpotenza al pari e superiore agli Stati Uniti, ma non è affatto detto che sarà così. Il miracolo economico-industriale cinese è evidente, tanto che la Cina è la seconda potenza al mondo avendo superato la Russia dal punto di vista economico e militare (sebbene l’arsenale nucleare russo rimanga ancora molto superiore); inoltre ha un progetto geopolitico di lungo periodo molto ambizioso per espandere la propria influenza ben oltre i suoi confini (gli investimenti e le relazioni di Pechino nei 5 continenti sono ben noti da anni). Però cominciano a vedersi anche delle crepe a livello strutturale: l’economia cresce ma non come prima, la bolla immobiliare incombe, l’entroterra agricolo resta lontanissimo dalla ricchezza delle grandi città della costa; ma anche la pessima gestione del covid e la repressione di Hong Kong, la decrescita della popolazione nonostante gli incentivi economici, la disoccupazione giovanile, l’equilibrio sempre più difficile tra un regime formalmente comunista ma capitalista in molte sue accezioni. Insomma, non è detto che non ci siano sorprese.

Se poi guardiamo alle relazioni con i Paesi limitrofi, la nascita di una superpotenza cinese non è propriamente benvenuta; vanno benissimo i legami commerciali e finanziari ma l’assertività cinese di cui abbiamo già parlato spaventa e non poco. Una Cina troppo potente è temuta dai Paesi circostanti perché la vicinanza rischia di “metterli sotto”; gli Stati Uniti invece fanno meno paura proprio perché sono “lontani”. Ricordiamo che una legge della geopolitica suggerisce sempre di allearsi con la potenza più lontana! Il caso vietnamita è emblematico: il Vietnam è una dittatura comunista con legami secolari con la Cina, eppure ha preferito avvicinarsi a Washington per non legarsi troppo strettamente a Pechino. E questo nonostante Stati Uniti e Vietnam abbiano combattuto una delle guerre più sanguinose della storia recente.

Alleati (e) Stretti

Lo stretto di Taiwan e le difficoltà militari che esso comporta sono tra le ragioni principali per cui Pechino finora non ha intrapreso nessuna azione militare per prendersi l’isola. Altri due passaggi d’importanza strategica sono il canale di Bashi a sud e lo stretto di Yonaguni a est, che separano Taiwan rispettivamente da Filippine e Giappone; averne il controllo riveste un’importanza fondamentale nell’ottica di uno scontro aeronavale con la Cina.

Le Filippine rivestono un’importanza crescente nella sfida che si sta sviluppando nel sud-est asiatico. Questo vastissimo arcipelago si trova in una posizione strategicamente privilegiata: vicinissimo a Taiwan ma anche prospicente al Mar Cinese Meridionale e alle SLOC che collegano l’Oceano Indiano con l’Asia Orientale. Da qui l’importanza del canale di Bashi, un tratto di mare largo 400 km che scendono a 160 km tra Taiwan e le isole Batan, sempre territorio filippino; rappresenta la “porta” d’accesso al Mar Cinese Meridionale ed è quindi un choke point fondamentale per le rotte commerciali. Sui suoi fondali vi troviamo la gran parte dei cavi dati che collegano l’Asia meridionale con il Nord America attraverso il sud-est asiatico e il Giappone.

Taiwan possiede 7 porti principali ma il più grande si trova a Kaouhsiung, proprio di fronte al canale di Bashi. È il quindicesimo porto al mondo per container e gestisce la maggior parte del traffico mercantile dell’isola; la sua capacità di gestire grandi volumi di traffico lo rende un’infrastruttura logistica critica in caso di guerra. Nel caso di un’invasione di Taiwan, la Cina avrebbe assoluto bisogno di assicurarsi il controllo del porto di Kaouhsiung per poter alimentare le sue forze sull’isola; allo stesso tempo, negherebbe a Taiwan l’arrivo di aiuti esterni. Non è un caso se le grandi esercitazioni del 2022 di cui abbiamo parlato in precedenza sono state estese per la prima volta alla zona antistante Kaouhsiung e al canale di Bashi. In questo contesto, controllare il canale di Bashi assume un’importanza strategica perché permette di controllare l’accesso al Pacifico dal Mar Cinese Meridionale e viceversa; non solo in caso di guerra ma anche per proiettare potenza. Questo è valido per la Cina ma anche per gli USA e per le altre potenze regionali.

Elaborazione da mappa di Limes, Laura Canali

Sia la Cina sia gli USA hanno tentato per anni d’influenzare la politica filippina per attirarla dalla propria parte, ma alla fine Manila si è allineata con Washington concedendo alcune basi sul suo territorio. Le ragioni sono evidenti: l’aggressività cinese, manifestatasi soprattutto con le pretese territoriali nel Mar Cinese Meridionale, ha preoccupato i vertici filippini che hanno trovato l’immediato appoggio americano. È anche vero che il popolo filippino ha un’opinione degli USA migliore rispetto alla Cina. L’equipaggiamento militare delle Forze Armate Filippine è in grandissima parte di provenienza occidentale e gli USA hanno anche contribuito all’addestramento dell’esercito filippino che ha visto parecchia azione contro i gruppi terroristici interni.

L’accesso al territorio filippino ha permesso agli americani di colmare un gap importante nell’arco di contenimento anticinese che va dal Giappone all’Australia. Cinque basi erano già state aperte alcuni anni fa ma nel 2023 si è raggiunto l’accordo per altre quattro. Nella mappa seguente si nota la concentrazione delle basi nel nord e nell’ovest delle Filippine: sono posizioni scelte strategicamente in vista di operazioni attorno a Taiwan e sul Mar Cinese Meridionale. Con “operazioni” non s’intende necessariamente “operazioni di guerra” ma anche ricognizione, salvataggio e pattugliamento in tempo di pace.

Ne risulta certamente rafforzata la deterrenza americana in tutta la regione, soprattutto in termini di superiorità aerea che non dipende più dai soli gruppi imbarcati della US Navy. Nel marzo 2023, alcuni F-22 sono stati schierati nelle Filippine dove si sono addestrati con l’Aeronautica locale; un fatto senza precedenti. In seguito, il Mar Cinese Meridionale è stato sorvolato con frequenza crescente da velivoli da pattugliamento marittimo P-8 Poseidon e da droni RQ-4 Global Hawk.

Tutto questo ha tolto alla Cina quella (poca) profondità strategica che il Mar Cinese Meridionale le offriva: quest’ultimo ha cessato di essere un “lago cinese” su cui esercitare una facile superiorità aeronavale, anzi: in caso di guerra dovrà allocarvi risorse aggiuntive per mantenerne il controllo. Inoltre dalle nuove basi americane potrebbero partire attacchi aeromissilistici contro grandi città come Shenzhen, Hong Kong e Zhanjiang, senza contare gli indubbi vantaggi per il controllo del canale di Bashi.

Possiamo aspettarci che Pechino metta in campo una serie di contromosse per mantenere il controllo del Mar Cinese Meridionale, per esempio: una maggiore presenza della Marina, rafforzamento degli avamposti sulle isole artificiali, pattugliamenti aerei più frequenti.

Altro choke point di grande importanza è lo stretto di Yonaguni a est di Taiwan: prende il nome dall’omonima isola giapponese, la più vicina a Taiwan tra le isole Yaeyama, parte dell’arcipelago delle Ryukyu (prefettura di Okinawa). Il Giappone ha schierato sulle isole diversi sistemi antiaerei e antinave e ha rafforzato le rispettive guarnigioni.

Spostandoci poco più a nord-est troviamo lo stretto di Miyako (conosciuto anche come Kerama Gap), tra l’isola omonima e Okinawa. Con i suoi 250 km di larghezza e acque internazionali, è lo stretto di maggiore ampiezza delle isole Ryukyu e consente il passaggio dal Mar Cinese Orientale all’Oceano Pacifico. Questo stretto è d’importanza strategica per la Marina cinese, che lo utilizza per accedere al Pacifico ma anche per delle dimostrazioni di forza sotto forma di esercitazioni. Non sorprende quindi che il Giappone abbia schierato anche sull’isola di Miyako delle batterie antiaeree e antinave, senza dimenticare che a Okinawa, sull’altro lato dello stretto, troviamo un’importante base navale americana.

Dal punto di vista americano, avere il controllo del canale di Bashi, dello stretto di Yonaguni e dello stretto di Miyako nel loro insieme consentirebbe di mantenere la zona a est di Taiwan relativamente al sicuro e di rifornire l’isola da due direttrici: da sud (Filippine) e da nord (Giappone); allo stesso tempo si negherebbe alla Marina cinese la possibilità di proiettare la sua forza attorno a Taiwan e oltre alla “prima catena di isole”, impedendole così l’accesso al Pacifico. In un quadro del genere i cinesi vedrebbero ridursi le opzioni operative possibili, rendendo più probabile un assalto “frontale” contro la costa occidentale di Taiwan che è già preparata per riceverlo.

Visto quanto sopra esposto possiamo aspettarci che, in caso di guerra, i Marines americani si precipiteranno ad occupare le isole più vicine a Taiwan (ovvero le Batan a sud e le Yaeyama a est) per renderle dei bastioni capaci di tenere testa alle formazioni aeree e navali nemiche. Questo dovrebbe dare tempo sufficiente al resto delle forze americane e alleate per dispiegarsi e contrastare le azioni cinesi attorno a Taiwan, nonché per minacciare le SLOC che collegano la Cina al Golfo Persico.

Il riarmo del Giappone

Il Giappone è la terza economia mondiale, una potenza tecnologica e industriale di primo livello, ma dalla Seconda Guerra Mondiale in poi non è mai stato un attore geopolitico particolarmente rilevante né dispone di uno strumento militare degno di nota. La costituzione giapponese, che fu scritta dagli americani nell’immediato dopoguerra, ha una forte connotazione pacifista proprio per scongiurare il ritorno di un Giappone imperialista e militarista; l’articolo 9 infatti riduce l’impiego delle Forze Armate alla sola autodifesa. Le Forze Armate giapponesi portano già nel loro appellativo una connotazione “difensiva”: si chiamano Japan Self-Defense Forces (JSDF).

Per decenni la società giapponese si è configurata come “costituzionalmente pacifista” e ha limitato le sue Forze Armate al ruolo di “scudo”, cioè alla mera protezione del territorio e della popolazione giapponese; questo spiega l’abbondanza di sistemi antiaerei e il focus dell’aviazione sulla difesa aerea, con relativa carenza di armi d’attacco. Il ruolo di “spada” è stato delegato all’alleato americano, che con le basi presenti sul territorio giapponese aveva invece la funzione di contrattaccare l’invasore.

Sfortunatamente per il Giappone, i suoi vicini non sono propriamente pacifici: la Corea del Nord è un regime oscuro e aggressivo, che di tanto in tanto fa cadere missili nel Mar del Giappone e ricorda al mondo di possedere delle testate atomiche; la Russia è una superpotenza nucleare, autocratica, che ha scatenato una guerra in Europa facendo risuonare gli allarmi anche in Asia; la Cina ha progetti egemonici, minaccia Taiwan e avanza varie pretese territoriali, anche a spese del Giappone. In un contesto sempre più conflittuale, Tokyo vede un attacco cinese a Taiwan come la versione asiatica dell’attacco russo all’Ucraina e quindi vuole dotarsi di un deterrente convenzionale abbastanza credibile da scoraggiare le ambizioni militari della Cina e le minacce della Corea del Nord.

Nel 2022 il governo guidato da Fumio Kashida ha avviato il programma di riarmo più importante dal secondo dopoguerra che lo porterà a spendere quasi il 2% del PIL per la Difesa in 5 anni (per decenni è stato sotto l’1%). L’incremento è già visibile: il budget della Difesa del 2023 è del 26% più alto rispetto al 2022, che era già stato un anno record. Tokyo intende incrementare in modo particolare la propria capacità di proiettare potenza e a questo scopo ha acquistato dagli Stati Uniti 500 missili cruise Tomahawk, che con la loro gittata massima di 1.600 km permetterebbero di colpire la Corea del Nord e la Cina orientale, inclusa Pechino; l’industria nazionale sta lavorando anche a missili ipersonici, a nuovi missili antinave a lungo raggio e a sistemi antimissili balistici. A fine 2022 il Giappone è entrato nel programma Tempest/GCAP con Italia e UK per il nuovo caccia di 6a generazione, che andrà ad affiancarsi a circa 150 F-35 già ordinati (al momento ne ha ricevuti una trentina). Delle portaerei classe Izumo (pardon, cacciatorpediniere portaelicotteri!) abbiamo già parlato.

A Washington nessuno si è stracciato le vesti perché l’ex nemico ha aggirato la costituzione e ha iniziato un robusto build-up militare, anzi: questo “burden sharing” di Tokyo è molto benvenuto perché si spera che la deterrenza generata dal rinnovato strumento militare giapponese aiuti a contenere l’assertività cinese.

Resta da vedere se il riarmo sarà veramente portato a termine nelle dimensioni desiderate o se subirà ridimensionamenti dietro pressione dell’opinione pubblica, che potrebbe non digerire eventuali aumenti delle tasse o tagli alla spesa sociale. Considerando che il Giappone ha il debito pubblico più alto del mondo (oltre il 250% del PIL), è abbastanza improbabile che il nuovo budget della difesa sia finanziato in deficit; invece è molto probabile che vengano spostati sotto l’ombrello della difesa altri capitoli di spesa, per esempio i budget per la ricerca tecnologica che hanno una certa rilevanza militare.

Infine c’è una questione di manpower: le Forze Armate giapponesi hanno sempre faticato a trovare soldati e marinai professionisti: i giovani sono poco attratti dalla divisa e preferiscono fare carriera nel settore privato, molto più remunerativo. Su questo problema si salda la ben nota crisi demografica del Giappone, la cui popolazione è in gran parte composta da anziani e che sta diminuendo in numero assoluto.

È presto per dire se il Giappone riuscirà nel suo intento e in che misura. Certamente è significativo che una potenza tradizionalmente e costituzionalmente pacifista abbia cambiato rotta così velocemente, peraltro seguendo la stessa direzione “offensiva” già marcata da Taiwan; segno che le contingenze internazionali, vicine e lontane, hanno avuto un effetto politico concreto.


Conclusioni

La Cina si sta ponendo sulla scena mondiale come la prossima superpotenza. Nonostante i suoi problemi e le sue contraddizioni, è una potenza in ascesa con grandi risorse e grandi ambizioni egemoniche; non sorprende che il suo strumento militare stia crescendo di pari passo.

Taiwan rappresenta qualcosa di più di un territorio da conquistare: è un “fermaporta” che Pechino deve rimuovere per essere credibile dal punto di vista militare e politico, per dimostrare di essere davvero la prossima superpotenza. Avere la Marina più grande del mondo e non riuscire a prendere un’isoletta a 150km dalla costa e popolata da 24 milioni di cinesi darebbe un messaggio distonico rispetto alla retorica di grande potenza globale propugnata da Pechino. Però Taiwan è anche una “trappola”: un’operazione militare che presupporrebbe uno sbarco anfibio mostruosamente complesso e costoso, con la possibilità concreta di un allargamento del conflitto come minimo a USA e Giappone e l’elevata probabilità di subire danni in patria. Si aprirebbero scenari da Terza Guerra Mondiale, incluso l’impiego di armi atomiche.

Allora è possibile che la “riunificazione” avvenga “con le buone”, ovvero con una conquista socio-economica? Questo è ciò che Pechino vorrebbe, ma finora non ci è riuscita. Anzi, più il tempo passa più la “distanza” tra le due società si allarga; ed ecco tornare la possibilità concreta di una qualche forma di guerra, sia essa un blocco navale o una guerra ibrida.

Abbiamo detto più volte che la strategia di Washington e dei suoi alleati ruota attorno alla deterrenza, attuata attraverso una crescente pressione militare: ci si aspetta che le nuove basi, i nuovi armamenti e una nuova postura strategica regionale dissuadano la Cina dal semplice tentare un’invasione di Taiwan. Viene però da chiedersi se tutto questo non induca Pechino a lanciare un’operazione militare prima che il dispositivo militare americano e alleato completi la sua crescita. In altre parole: più gli USA tentano di dissuadere la Cina, più potrebbero spingerla ad attaccare Taiwan prima che sia troppo tardi. Anche per questa ragione diversi analisti ritengono possibile un attacco cinese ben prima del 2049, forse nei prossimi anni.

La guerra in Ucraina ci ha ricordato che le guerre ad alta intensità esistono ancora e sono incredibilmente distruttive; l’Occidente deve farsi trovare preparato anche perché la Cina ha una “sua” visione del mondo, spesso antitetica a quella occidentale, e potrebbe essere disposta a pagare un prezzo elevato pur di raggiungere gli obiettivi strategici che si è prefissata. Gli Stati Uniti si stanno già muovendo in tal senso, con importanti investimenti tecnologici e di procurement, azioni diplomatiche e uno shift strategico senza paragoni storici. L’Europa invece dovrà gestire il ritorno di una Russia aggressiva molto più “da sola” che in passato, e allo stesso tempo dovrà decidere come comportarsi rispetto a un conflitto nel Pacifico. Sfide non facili che richiedono una classe politica all’altezza e Forze Armate ben equipaggiate, in quantità e qualità. Presentarsi all’appuntamento divisi e in ritardo potrebbe essere alquanto tragico.


Note:

[1] La legge marziale fu dichiarata a Taiwan già nel 1949 e rimase in vigore fino al 1987 allo scopo principale di sopprimere l’opposizione politica. Il periodo è conosciuto come “Terrore Bianco”: 140.000 persone furono imprigionate o giustiziate perché considerate filo-comuniste o anti-KMT. Poiché queste persone provenivano principalmente dall’élite intellettuale e sociale, di fatto fu distrutta un’intera generazione di leader politici.

[2]  Risoluzione dell’ONU n. 2758 del 25 ottobre 1971.

[3] La Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC) è il più grande produttore indipendente di semiconduttori al mondo. Fondata nel 1987, nel giro di pochi anni si è imposta come leader nella produzione di microchips per conto di clienti terzi, soprattutto americani. A Taiwan risiedono le fabbriche più evolute, con tecnologia produttiva da 16 nm o meno.

[4] Taipei e Kaohsiung sono i principali hub logistici di Taiwan.

[5] L’appellativo “superportaerei” non è una designazione ufficiale in nessuna Marina del mondo, ma è diventato di uso comune nei media per definire delle portaerei di grandi dimensioni o dislocamento, di solito in riferimento alle portaerei americane. In genere si indica come superportaerei una portaerei con stazza superiore alle 60-65.000 tonnellate, quindi includendo anche la Shandong e la Fujian cinesi e le Queen Elizabeth inglesi, ma escludendo le varie navi da appoggio anfibio e le portaerei più leggere.

[6] In precedenza venivano impiegati i JL-2 con gittata di 8.500 km.

[7] Possiamo pensare a qualcosa di simile all’invasione russa della Crimea nel 2014, un’azione rapida condotta sotto i dettami della guerra ibrida cui l’Occidente ha reagito con qualche sanzione economica.

[8] Si noti che tra Taiwan e le Filippine, sui fondali del canale di Bashi, sono posati diversi cavi per la trasmissione di dati internet tra Asia e Nord America; interrompere queste connessioni può avere effetti gravissimi per tutto il mondo. Per citare un piccolo esempio: ad aprile 2023 i cavi internet che collegano Taiwan alle isole Matsu sono stati tagliati (cause e dinamiche non sono stati chiariti) creando problemi di comunicazione importanti.

[9] A titolo di paragone, sulle spiagge della Normandia sbarcarono 156.000 uomini.

[10] Le esercitazioni sono iniziate dopo la visita a Taiwan dello speaker della Camera dei rappresentanti degli USA, Nancy Pelosi, e sono state anticipate da una ferma condanna della visita da parte di Pechino. La Cina infatti temeva che tale visita andasse a violare il principio di una sola Cina legittimando, di converso, Taiwan come Stato indipendente. Questo fa capire come la forma sia sostanza quando si ha a che fare con la Cina.

[11] https://digital-commons.usnwc.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1814&context=nwc-review

[12] Solo nell’estate del 2023 si sono avute le prime immagini dello HF-2E, che era in servizio da una decina d’anni ma non era mai stato mostrato pubblicamente. Comunque in generale le informazioni sui missili d’attacco taiwanesi sono alquanto scarse quindi i dati variano molto da una fonte all’altra.

[13] Scaricabile qui: https://www.csis.org/analysis/first-battle-next-war-wargaming-chinese-invasion-taiwan


Per approfondimenti:

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