La guerra psicologica quale mezzo atto a dissuadere le minacce

L’impiego di strategie psicologiche si è affermato come elemento fondamentale nelle dottrine di sicurezza nazionale al fine di neutralizzare minacce sia interne che internazionali. La guerra psicologica si configura quale orchestrazione deliberata di campagne propagandistiche ed operazioni psicologiche mirate a modulare percezioni, emozioni, convinzioni e comportamenti di entità avversarie (RAND, 2018). Tecniche quali la manipolazione informativa, la disinformazione, la fabbricazione di falsità, l’impiego di seduzioni strategiche e la diffusione di propaganda sono frequentemente adottate onde erodere la coesione e la volontà dell’opposizione. In un’era segnata da atti di terrorismo e movimenti insurrezionali, tali tattiche vengono utilizzate non solo per prevalere sugli avversari ma anche quali strumenti di deterrenza e contrapposizione a minacce emergenti. Come valutare l’efficacia reale di tali metodologie psicologiche nel conseguire gli obiettivi prefissati?

Guerra Psicologica (Psychological Warfare)

Numerosi studiosi hanno elaborato trattati inerenti alla guerra psicologica, delineandola quale entità cruciale sia nel dominio militare che in quello dell’antiterrorismo. La pertinenza dell’adozione di strategie psicologiche nel teatro bellico trova le sue radici nell’opera di Sun Tzu, il quale, pur non avvalendosi della terminologia contemporanea, ha enfatizzato la supremazia di neutralizzare le tattiche avversarie senza ricorrere alla forza bruta (Freedman, 2013). Ciò non implica, però, l’esclusione categorica della forza fisica nelle operazioni di guerra psicologica: le nazioni impiegano un ampio spettro di strumenti atti ad influenzare psicologicamente il proprio target. Le direttive di Sun Tzu preconizzavano l’impiego di tattiche non standard, quali l’inganno, l’acume strategico e l’elemento sorpresa, al fine di erodere il morale avversario anziché limitarsi ad una sua mera sconfitta fisica (McNeilly, 2015).

Al fine di addentrarsi nell’”essenza” della guerra psicologica, è imperativo sondare le molteplici tattiche e strategie attraverso le quali tali metodologie trovano applicazione: Ryan Clow (2008), affiliato civile al Comando delle Forze Speciali Canadesi all’interno del Dipartimento della Difesa Nazionale, disquisisce, ad esempio, sulla dimensione psicologica del conflitto bellico, postulando che, nonostante l’adozione di tecniche psicologiche in ambito combattivo, il loro potenziale rimanga parzialmente inesplorato. Clow dedica particolare attenzione all’implementazione ed alle ripercussioni derivanti dall’uso di tattiche psicologiche, delineando tre obiettivi in qualità di fulcro di ogni operazione psicologica: l’erosione della volontà avversaria, il consolidamento del consenso all’interno della propria base di sostegno e l’acquisizione dell’appoggio da parte di soggetti neutrali od indecisi. Onde ottenere una conduzione efficace delle operazioni psicologiche, Clow enfatizza la necessità per i comandanti tattici di valutare con scrupolo le percezioni del pubblico bersaglio, sottolineando l’importanza di decifrare la complessità dell’obiettivo, nonché atteggiamenti e comportamenti che determinino le opinioni predominanti. In tale prospettiva, Clow argomenta come, parallelamente all’impiego di mezzi bellici convenzionali quali carri armati ed armamenti automatici, risulti essenziale l’integrazione di competenze specialistiche quali l’antropologia, la linguistica e la storiografia all’interno del teatro operativo.

Stati Uniti

Nell’era della condivisione delle informazioni, le operazioni psicologiche hanno acquisito un’importanza crescente nel contrapporre le minacce asimmetriche (Narula, 2018). Nel quadro della cosiddetta “guerra al terrorismo”, il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ed altre agenzie federali hanno adottato strategie psicologiche sofisticate con l’intento di erodere le fondamenta ideologiche ed il sostegno al terrorismo jihadista. La manipolazione ed il controllo del flusso informativo sono diventati elementi fondamentali della dottrina strategica, sia sul piano domestico che internazionale.

È cruciale riconoscere come le tecniche di guerra psicologica non si rivolgano esclusivamente agli avversari esterni, ma vengano anche applicate all’interno dello stato, servendo quali strumenti di deterrenza interna e di modellamento del consenso pubblico. In particolare, nel contesto post-11 settembre, gli USA hanno enfatizzato la narrativa della “guerra al terrorismo” onde costruire una dicotomia antagonistica tra “aggressore e vittima” (Louw, 2003). Tale narrazione è stata promossa con l’intento di giustificare le operazioni militari in Afghanistan quale reazione necessaria agli attacchi terroristici, nonché di presentare l’intervento come un’azione di liberazione dal giogo oppressivo dei Talebani, descritti come un’“organizzazione divergente”.

Louw (2003) osserva tuttavia come la retorica della “guerra al terrorismo” non abbia ottenuto il consenso né abbia raggiunto gli obiettivi strategici prefissati, evidenziando le complessità e le sfide intrinseche nell’impiego della guerra psicologica in contesti geopolitici complessi. L’analisi sottolinea la necessità di un approccio “più maturo e sfumato” nell’elaborazione di strategie psicologiche, che tenga conto delle dinamiche socioculturali e delle percezioni locali al fine di ottenere un impatto duraturo e significativo.

La problematicità intrinseca di tale tattica risiedeva primariamente nella reazione avversa dei rifugiati afghani, i quali non accolsero favorevolmente la loro “liberazione” ad opera degli Stati Uniti. Le perdite civili in Afghanistan furono percepite come dirette conseguenze delle azioni militari statunitensi piuttosto che delle operazioni condotte dai talebani (Louw, 2003). Un’analisi critica da parte di studiosi e consulenti di politica estera ha messo in luce come gli USA avrebbero potuto evitare le tragiche vicende dell’11 settembre se avessero evitato di contribuire, seppur indirettamente, all’ascesa dei talebani (Ryan, 2004). La retorica statunitense della “guerra al terrorismo” si è rivelata controproducente, generando più effetti deleteri che benefici: “lontano dal guadagnare simpatie, ha seminato una cultura pervasiva del terrore” (Brzezinski, 2007). Tale atmosfera di paura ha eroso le fondamenta democratiche americane, poiché “l’emozionalità intrinseca alla paura ha oscurato la logica razionale, inducendo la popolazione americana in uno stato di insicurezza e paranoia” (Brzezinski, 2007). Manifesto di tale irrazionalità fu l’adozione del profiling razziale, che causò gravi disagi a coloro che ne subirono le implicazioni (Spann, 2005): in seguito agli attacchi dell’11 settembre, il governo degli Stati Uniti implementò una “registrazione speciale” attraverso il Patriot Act, costringendo individui con visti provenienti da nazioni mediorientali a sottoporsi ad interrogatori, registrazione biometrica ed identificazione presso i Servizi di Immigrazione e Naturalizzazione (INS) (Crawford, 2016). Tale pratica discriminatoria alimentò il malcontento, con accuse verso gli USA di perpetuare odio razziale e supremazia (Crawford, 2016).

Riguardo alle minacce contemporanee, gli Stati Uniti hanno compreso l’importanza di influenzare una popolazione, specialmente in una situazione di contro-insurrezione: nel perseguire lo sviluppo di capacità in Afghanistan ed Iraq, hanno ad esempio impiegato numerose operazioni e tattiche psicologiche. Più specificamente, il Corpo dei Marines ha personalizzato le proprie operazioni di messaggistica militare onde raggiungere con successo gli obiettivi prefissati (Brzezinski, 2007). Alcuni metodi che i Marines hanno trovato efficaci includono la comunicazione faccia a faccia, incontri di persona con gli anziani locali e l’instaurazione di stretti legami con i media afghani. È importante notare come lo scopo dell’utilizzo di tali metodi fosse quello di minare il crescente sostegno ad Al-Qaeda ed ai Talebani, anche nei paesi occidentali: in tale ottica “lo sforzo si è rivelato di scarsa efficacia, poiché gli USA non sono stati in grado di contrastare efficacemente la propaganda a loro avversa né a livello nazionale che internazionale”. (Brzezinski, 2007).

In relazione alle sfide poste dalle minacce transnazionali, si osserva come gli Stati Uniti abbiano incontrato notevoli ostacoli nell’opposizione ad entità quali lo Stato Islamico. L’analisi critica rivela come le fazioni terroristiche abbiano mostrato una superiore maestria nell’arte della guerra psicologica, contrapponendosi alla meno efficace gestione dell’informazione da parte statunitense. Gompert e collaboratori (2008) evidenziano tale discrepanza, sottolineando la necessità di un rafforzamento nelle strategie comunicative. Il National Defense Research Institute (RAND, 2008) propone un potenziamento su tre fronti informativi: il networking, ovvero l’espansione e l’ottimizzazione della rete informativa ed operativa; la cognizione, intesa come l’acume nel comprendere ed interpretare le dinamiche globali; e la dimensione psicologica, che implica un approfondimento delle tecniche di influenza mentale e comportamentale. In particolare, per quanto concerne l’aspetto psicologico, il RAND avanza la raccomandazione per gli USA di abbandonare la diffusione di una narrativa esclusivamente pro-America a favore di una strategia che evidenzi l’incapacità delle organizzazioni terroristiche di soddisfare le autentiche necessità delle popolazioni, minando così la loro legittimità ed influenza sulle masse (Gompert et al., 2008).

Altro elemento cruciale da considerare è l’impiego di strategie di guerra psicologica non esclusivamente da parte di entità statali, ma anche da attori non governativi, come dimostra l’operato dell’ISIS. Quest’ultimo ha dimostrato una notevole perizia nell’orchestrare campagne di propaganda mirate a consolidare il proprio seguito e ad amplificare la propria influenza mediatica ed ideologica su scala globale (Urtak, 2016). In risposta a tale minaccia psicologica, gli Stati Uniti hanno istituito il Centro per le Comunicazioni Strategiche di Antiterrorismo (CSCC), con l’obiettivo primario di erodere le fondamenta della macchina propagandistica dell’ISIS e neutralizzare le sue operazioni volte a catturare l’adesione ed il consenso delle masse a livello internazionale (Urtak, 2016). Nell’ambito di tale contesa narrativa, gli USA hanno adottato una tattica di contrapposizione propagandistica, caratterizzata da un approccio visivamente impattante e diretto, che si avvalesse delle medesime rappresentazioni grafiche utilizzate dall’ISIS onde documentare atti di violenza contro la popolazione (Urtak, 2016). In aggiunta, al fine di destabilizzare le operazioni dell’ISIS nei territori sotto il suo controllo e disorientare i suoi affiliati riguardo a potenziali azioni militari imminenti, gli Stati Uniti hanno proceduto al lancio di volantini nelle aree interessate, incitando la popolazione civile all’evacuazione (Bertrand, 2018). Una manovra che si è rivelata strategica, inducendo una migrazione forzata dei combattenti dell’ISIS e conseguentemente una perdita di controllo territoriale (Capelouto e Alkhshali, 2016). Nonostante tali sforzi, tuttavia, la capacità degli Stati Uniti di contenere l’espansione dell’influenza dell’ISIS attraverso le piattaforme digitali ed i social media nel Nord America è stata limitata (Urtak, 2016).

Russia

La Federazione Russa si distingue per la sua abilità nell’orchestrare interventi, talvolta con metodi subdoli ed in altri casi con azioni manifeste, nelle dinamiche interne di altre nazioni, frequentemente con l’obiettivo di “instillare dubbi riguardo alla legittimità della governance di uno stato e/o di erodere la sua sovranità” (Diamond, 2016). Tale schema operativo è implementato attraverso l’adozione di tattiche di guerra psicologica che includono la disseminazione di informazioni fallaci, la soppressione mediatica, la pratica dell’inganno ed altre forme di manipolazione propagandistica.

Le manovre di guerra psicologica adottate dalla Russia sono fondate su dominio ed alterazione delle informazioni. Secondo quanto esposto da Dejean (2017), generando “disordine, disorientamento e dissenso all’estero”, il Cremlino mira a consolidare la propria posizione geopolitica ed a deviare l’attenzione dalle proprie problematiche economiche e politiche interne. La Federazione Russa ha cercato di attuare tale strategia “nei Paesi Baltici, ostruendo il loro accesso ad Internet; in Ucraina, mediante l’infiltrazione del sistema elettorale e la compromissione della rete elettrica; nei Paesi Bassi, tentando di alterare i documenti ufficiali; in Germania, attraverso campagne di disinformazione ed attacchi cibernetici; ed in Francia, conducendo operazioni di hacking contro le infrastrutture mediatiche” (Dejean, 2017). Nel contesto della gestione delle informazioni, la Russia dimostra una notevole competenza nell’impiego di una vasta gamma di strumenti, inclusi dispositivi informatici malevoli, onde minare l’autorità degli stati bersaglio.

L’epitome dell’impiego di strategie di guerra psicologica da parte della Federazione Russa volta ad infiltrarsi e perturbare la sovranità psico-politica di altre nazioni, si manifesta nell’impegno sistematico orchestrato nei confronti degli Stati Uniti. La tensione bilaterale tra le due potenze è palpabile, acuita dall’ingerenza russa nelle elezioni presidenziali americane del 2016, un evento che ha inasprito rapporti già tesi. L’escalation di tale tensione è stata esacerbata dall’incursione cibernetica attribuita alla Russia ai danni del Democratic National Committee (DNC) ed alla compromissione delle comunicazioni elettroniche del suo coordinatore. Tali rivelazioni hanno esposto dettagli controversi concernenti la Clinton Foundation e le dinamiche interne che hanno condotto alla sconfitta di Bernie Sanders da parte di Hilary Clinton per la candidatura democratica (Sakwa, 2017). Le presunte operazioni di leak (dati intercettati e divulgati), orchestrate con maestria, rientrano nell’ambito delle tattiche di guerra psicologica: la disseminazione di tali comunicazioni ha seminato il germe del dubbio nell’ethos collettivo americano, non solo nei confronti dell’establishment democratico e di Hilary Clinton ma minando alla base stessa la fiducia nel sistema democratico americano. Sebbene manchi una convalida diretta delle imputazioni di manipolazione elettorale mosse contro la Russia, si assiste ad un crescente clima di sfiducia da parte dei cittadini americani sia verso la Russia, sia verso l’integrità del loro stesso apparato politico, come evidenziato da Lo (2017). Nonostante ciò, la reputazione della Russia nel dominio della guerra informativa e nell’arte della propaganda ha guadagnato crescente notorietà e rilevanza.

Uno degli strumenti preminenti attraverso cui la Federazione Russa esercita la sua influenza sull’opinione pubblica degli Stati Uniti è incarnato dalla piattaforma mediatica internazionale Russia Today, sostenuta finanziariamente dal governo russo. Oates (2017) osserva che “la rete persegue con sottigliezza gli interessi nazionali russi, mascherando le proprie malefatte ed accentuando le discordie interne statunitensi”. La difficoltà per il cittadino americano medio di discernere la vera natura e gli scopi sottesi alla rete Russia Today deriva dall’impiego di persone statunitensi madrelingua e dall’adozione di tecnologie audiovisive all’avanguardia, le quali si amalgamano con destrezza alle aspettative mediatiche USA (Oates, 2017). Tale sinergia tra adattamento culturale e tecnologico ha facilitato il Cremlino nella disseminazione di narrazioni distorte e parziali, le cui tracce sono ardue da individuare, consolidando così il proprio ascendente nell’orientare le dinamiche cognitive ed affettive dell’auditorio americano. La “conquista dei cuori e delle menti” a cui si fa riferimento non allude tanto ad un sostegno esplicito verso la Russia, quanto piuttosto a manipolazione ed influenza capaci di indirizzare le scelte politiche, economiche e sociali degli americani (Oates, 2017). In tale contesto, “la Russia ha eretto una rete di profili fittizi sui social media e ha impiegato campagne pubblicitarie mirate onde veicolare argomentazioni allineate con la piattaforma politica di Donald Trump, plasmando di fatto le opinioni” (Morris, 2018). Nonostante la criticità implicita nel quantificare con precisione l’entità e l’efficacia di tali tattiche psicologiche, è innegabile come la guerra informativa e le strategie di guerra psicologica adottate dalla Russia, incentrate sulla disinformazione e sulla propaganda, abbiano sortito effetti tangibili sulla società americana, influenzando profondamente la sua percezione della politica e della democrazia nazionale. “Con la capacità di compromettere infrastrutture critiche quali la rete elettrica e di manipolare siti web istituzionali, la Russia si è manifestata non solo come una minaccia latente, ma come un avversario tangibile che richiede un’azione decisa. Uno scenario che ha incrementato la sensazione di insicurezza tra i cittadini americani nell’utilizzo dei media, contribuendo ad un innalzamento della discriminazione e della polarizzazione, risultati diretti dell’azione propagandistica e dell’infiltrazione russa nel tessuto sociale” (Morris, 2018).

India

L’India impiega strategie di guerra psicologica con l’obiettivo di neutralizzare la disinformazione terroristica interna e di contrapporsi alle minacce emerse dal confinante Pakistan (Narula, 2008). Il fulcro del dissidio indo-pakistano si localizza nella disputa per il Kashmir settentrionale, una regione di cruciale importanza geostrategica, data la sua adiacenza sia al Pakistan che alla Cina. Fayaz (2016) sottolinea che l’origine delle frizioni tra le due nazioni è da attribuirsi alla parziale sovranità esercitata dal Pakistan su alcune aree del Kashmir. In tale contesto di contesa, emerge il desiderio della popolazione kashmira di ottenere una sovranità assoluta, svincolata tanto dall’India quanto dal Pakistan, generando una situazione di instabilità politica che affligge milioni di abitanti (Geelani, 2016). Nelle porzioni del Kashmir sotto amministrazione indiana, si è radicato un profondo sentimento di avversione verso il governo centrale, che si è manifestato attraverso l’insorgere di rivolte armate volte ad erodere la presenza autoritaria indiana nella regione (Geelani, 2016). Di fronte a tale scenario, l’India ha intensificato il dispiegamento delle proprie risorse in loco onde preservare la propria supremazia e mitigare eventuali insurrezioni.

“Un metodo attraverso il quale l’India tenta di attenuare le tensioni e le gravi violazioni dei diritti umani in Kashmir è la gestione dei media, che spesso distorce la narrazione degli eventi e la situazione dello stato”. “Un altro meccanismo impiegato dallo stato indiano sono i campi di concentramento” (Geelani, 2016). “All’interno dei campi, il popolo del Kashmir viene torturato, mutilato, umiliato ed abusato sessualmente come mezzo atto a creare paura e scoraggiare altri kashmiri dal protestare per l’indipendenza” (The Economist, 2016). Tali metodi “non sono stati efficaci nel contrastare le forze militanti in Kashmir, in quanto la militanza si sta rinnovando e diventando ancora più determinata ad ottenere l’indipendenza dall’India” (Masood, 2018).

“Anche il terrorismo islamico è in aumento in India, con origini collocabili prevalentemente nel Kashmir. Sebbene non ci sia una vera e propria documentazione riguardo ad una strategia ufficiale di guerra psicologica dell’India, l’uso di elementi psicologici è evidente e può essere esaminato osservando le operazioni dirette contro avversari interni (musulmani indiani), il Pakistan e il pubblico internazionale” (Dheeraj, 2018). Una tattica utilizzata dalle agenzie indiane è quella di promuovere la narrazione del secolarismo nazionale, che consente l’integrazione delle minoranze musulmane nella più ampia società indiana (Dheeraj, 2018). Un metodo che si è tuttavia rivelato inefficace poiché “i principali partiti politici dell’India minano il concetto di secolarismo ed inclusione, promuovendo agende motivate dall’induismo” (Komireddi, 2009). Nel tentativo di scoraggiare i musulmani indiani dal seguire le ideologie dell’ISIS, “l’India ha inoltre apportato modifiche anche al sistema educativo, riducendo l’importanza dell’insegnamento religioso nelle scuole musulmane” (Dheeraj, 2018). “Per conquistare i cuori e le menti dei musulmani indiani, le agenzie indiane hanno applicato metodi basati sull’intelligence, rivelatisi efficaci in Kashmir, dove i soldati sono stati in grado di isolare i terroristi e guadagnare, nel contempo, la fiducia della popolazione” (Dheeraj, 2018). Tuttavia, “a seguito dell’aumento del terrorismo transnazionale e della globalizzazione, è stato difficile per l’India influenzare con efficacia la propria popolazione o quella del Pakistan” (Dheeraj, 2018).

Conclusione

Nell’analisi comparativa delle strategie impiegate da Stati Uniti, Federazione Russa ed India nell’ambito della guerra psicologica per neutralizzare o deterrere minacce esterne, emerge la necessità imperativa di un’indagine approfondita che debba abbracciare integralmente le modalità con cui un ente sovrano implementi le proprie tattiche psicologiche, sia in fase preventiva che operativa. L’esame dei tre casi in questione rivela come l’efficacia delle operazioni psicologiche sia intrinsecamente legata alla capacità di un ente di acquisire ed interpretare dati pertinenti: solo attraverso un’analisi informativa meticolosa è possibile identificare con precisione gli obiettivi, definire le metodologie d’intervento e prevedere le potenziali ripercussioni delle azioni intraprese.

L’approccio statunitense nella diffusione della narrativa relativa alla “guerra al terrorismo” si è ad esempio rivelato contraddittorio, in quanto la presunzione che tale campagna avrebbe generato empatia e supporto per la causa si è scontrata con la realtà: invece di ottenere l’effetto sperato, l’iniziativa ha involontariamente rafforzato la retorica di gruppi islamici ed alimentato sentimenti antiamericani. Analogamente, l’India ha riscontrato limiti nell’applicazione di strategie psicologiche contro i movimenti insurrezionali/terroristici interni di matrice islamica, sottovalutando l’impatto della globalizzazione e la conseguente dimensione transnazionale del fenomeno terroristico. Tali osservazioni sottolineano l’importanza di un’analisi contestuale e di un’intelligence affinate onde orientare efficacemente le operazioni psicologiche nel teatro globale della guerra asimmetrica.

Di converso, la Federazione Russa ha dimostrato notevole destrezza nell’orchestrare campagne di disinformazione, mirate ad insinuare incertezza e timore tra le proprie controparti. Un esempio emblematico di tale tattica è l’attribuita infiltrazione cibernetica delle comunicazioni del Democratic National Committee (DNC) e la conseguente manipolazione del processo elettorale statunitense, azioni che hanno seminato discordia ed apprensione nell’ethos collettivo americano. La Russia ha esteso il suo raggio d’azione, influenzando infrastrutture critiche quali reti elettriche, sistemi di telecomunicazione, piattaforme mediatiche e sistemi elettorali internazionali. Benché le operazioni psicologiche richiedano un arco temporale esteso per valutarne l’efficacia complessiva, il Paese emerge come l’entità statale più competente nell’applicazione di tali strategie, rispetto agli altri attori analizzati.

Analizzando le strategie di guerra psicologica adottate da Stati Uniti, Federazione Russa ed India, emerge una correlazione intrinseca tra l’efficacia di tali metodologie e variabili quali la natura della minaccia, le tecniche impiegate e gli obiettivi perseguiti. Ciascuna di tali nazioni ha calibrato l’uso della guerra psicologica in funzione di obiettivi specifici, contestualizzati in scenari geopolitici distinti. Gli Stati Uniti hanno focalizzato le loro operazioni psicologiche contro le minacce terroristiche di matrice islamica, la Federazione Russa ha mirato al consolidamento del proprio ascendente politico su scala globale, mentre l’India ha diretto le proprie azioni contro il terrorismo islamico interno, inquadrato nel più ampio contesto delle tensioni con il Pakistan.

L’analisi rivela come l’efficienza di tali operazioni psicologiche sia strettamente legata alla logistica implementativa delle stesse: in tale ambito, le operazioni condotte dalla Federazione Russa si sono distinte per una maggiore efficacia, attribuibile alla sinergia con avanzate tecnologie ed all’assenza di vincoli morali ed etici che, al contrario, possono influenzare e potenzialmente limitare le azioni degli Stati Uniti.

In conclusione, l’assenza di restrizioni morali ed etiche, unitamente all’integrazione efficace di intelligence ed informazioni dettagliate sulle entità bersaglio, si configurano quali elementi determinanti per l’efficacia della guerra psicologica. Tale constatazione, benché derivante dall’analisi di specifici contesti nazionali, assume validità ed applicabilità in una prospettiva globale, sottolineando l’importanza di una strategia complessa e multidimensionale nell’ambito della guerra psicologica.


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