Ecco come reagirono i carristi quando subirono il primo furto della loro identità
La lettura dell’Ordine del Giorno all’Ariete diramato lo scorso 1° febbraio per celebrare la ricorrenza dell’84° anniversario della nascita della Grande Unità, e pubblicato anche sulle pagine del numero 314 della rivista “Il Carrista d’Italia”, ha attirato la mia attenzione laddove, nell’elencare i fasti dell’odierna 132^ Brigata Corazzata, l’estensore ha avvertito la necessità di inserire anche la menzione della seconda delle due divisioni del nostro Esercito cui, nella data fatidica del 1° aprile 1943, fu attribuito il nome di Ariete, ma il numero ordinativo di 135^. È infatti giusto ricordare ogni cosa.
Al riguardo, debbo però confessare che nei miei ricordi di ormai attempato e forse smemorato arietino non ho memoria di Ordini del Giorno nei quali si sia avvertito il bisogno di aggiungere questa particolare menzione che – diciamolo – non aggiunge molto alle glorie di guerra – originali e indiscutibili – che costituiscono il patrimonio spirituale dell’attuale 132^ Brigata Corazzata “Ariete”.
Per affermare quanto precede mi baso su un semplicissimo ragionamento a ritroso.
- È assodato che l’odierna 132^ Brigata Corazzata Ariete discende senza soluzione di continuità dall’omonima divisione ricostituitasi nel 1948 e sciolta nel 1986.
- È altrettanto incontestabile che la divisione post bellica era la diretta discendente di quella che si era costituita il 1° febbraio 1939 a Milano, che poi dal 1941 aveva combattuto senza sosta, per 24 durissimi mesi, in Africa Settentrionale e che nel 1948 aveva potuto rivedere la luce grazie a tantissimi Ufficiali e Sottufficiali carristi, artiglieri e bersaglieri reduci della guerra nel deserto.
- Altrettanto inconfutabile è che tra la divisione immolatasi ad El Alamein e quella sorta ipso facto nella primavera del 1943 non vi fosse la benché minima continuità organica o storica (leggasi esperienziale). Il Comando della nuova divisione era sorto in una località (Ferrara) del tutto estranea alla primitiva Ariete, ed era stato formato attingendo a piene mani dallo Stato Maggiore della vecchia 2^ Divisione Celere Emanuele Filiberto Testa di Ferro. L’Ariete ferrarese era fatta poi con cinque reggimenti nessuno dei quali aveva nulla a che vedere con quelli che l’Ariete aveva diretto nelle operazioni della guerra africana. Quattro di questi erano stati peraltro ricostituiti ex novo da vari centri di mobilitazione del tutto estranei alla Divisione Corazzata Ariete 132^. La versione estense dell’Ariete era quindi fatta con altri uomini, indubbiamente valorosi e capaci, che però la guerra dei corazzati combattuta per due anni in Libia e in Egitto e che in quel momento stava concludendosi in Tunisia, l’avevano vista “col binocolo”.
In comune con l’Ariete “africana”, quella “ferrarese” aveva difatti soltanto il nome che le venne attribuito a guisa di “amuleto” portafortuna, ma anche a mo’ di sprone. Come detto più sopra, neppure il numero ordinativo era lo stesso.
Diversa era soprattutto la mentalità: il Comandante della 135^ era il Generale di cavalleria Raffaele Cadorna, preclaro ufficiale che tuttavia – almeno fino al 1940 – si era sempre opposto alla trasformazione in chiave meccanizzata della propria arma e che proprio per questo motivo aveva avuto qualche incomprensione con il collega Generale Gervasio Bitossi, unico alto ufficiale dell’arma acceso precursore carrista che si ricordi dal 1932 a questa parte e comandante/forgiatore della Divisione Corazzata Littorio (la 133^), sorella di guerra della nostra Ariete.
Quante differenze tra la 132^ e la 135^ Divisione corazzata a dispetto dell’omonimia!
Il nome condiviso è dunque sufficiente per aggiungere al retaggio dell’odierna 132^ Brigata Corazzata anche l’effimera 135^ Divisione?
Anche se tutto deve essere ricordato, si direbbe proprio di no. È in fondo quel che giustamente sanno fare i Paracadutisti della Folgore che ben si guardano dal confondere il nome della loro brigata con quello dell’omonima prestigiosa divisione meccanizzata che – nel dopoguerra – ha portato lo stesso nome per quarant’anni (non per poche settimane come nel caso dell’Ariete II) e che a sua volta faceva risalire la sua origine a uno dei Gruppi di Combattimento protagonisti della Guerra di Liberazione. Nelle loro sintesi storiche, i paracadutisti non avvertono l’esigenza di tale menzione.
Del resto, per essere parenti non basta avere lo stesso cognome e nessuno può contestare il fatto che – per i motivi sopra detti – le Divisioni corazzate Ariete (132^) e Ariete (135^) fossero tra loro diverse per radici, per storia e, soprattutto, per natura.
In merito a questa vicenda dell’Ariete “estense” esiste poi uno specifico retroscena, poco noto, ma che si innesta potentemente nel patrimonio identitario e nelle tradizioni più gagliarde della nostra specialità e del quale coloro che si professano ferventi carristi non possono non tener conto. Cerco di riassumerlo molto brevemente.
L’ordine del giorno del Capo di Stato Maggiore Ezio Rossi
I carri del Reggimento Lancieri di Vittorio Emanuele II fotografati il 9 giugno 1943 nella Nomina (Pordenone) durante il periodo di addestramento svolto in Friuli presso il Centro Addestramento Carristi di Cordenons.
Il 26 marzo 1943, facendo seguito a una disposizione diramata dall’Ufficio Ordinamento dieci giorni prima, l’allora Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito, Generale Ezio Rossi, nel diramare un Ordine del Giorno all’Esercito (che di seguito riproduciamo) annunciava – con l’enfasi tipica del tempo di guerra – la decisione di ricostituire la Divisione Corazzata Ariete (135^) svelando la davvero inedita fisionomia organica – full cavalry – che essa avrebbe iniziato ad avere a partire da cinque giorni più tardi.
Nelle intenzioni del decisore, la nuova grande unità avrebbe potuto (e dovuto) giovarsi del nome ereditato per trarre dal retaggio dell’Ariete africana la forza morale a lei necessaria per emulare il valore, il temperamento, la competenza e il mito dei corazzati d’Africa nelle situazioni e nei luoghi che per essa, in quel momento, si profilavano. Non si trattava soltanto di una questione di superstizione, ma era – soprattutto – una sfida per spronare quanti si ostinavano ancora a non volerne proprio sapere di riconfigurarsi secondo le necessità imposte dalla guerra che ormai si combatteva da tre anni.
Le unità di manovra della novella divisione erano state ordinate ed equipaggiate alla luce degli ammaestramenti impartiti dai due anni di lotta corazzata asprissima in Africa Settentrionale che aveva letteralmente inghiottito tre divisioni corazzate e l’equivalente di diciassette (!) battaglioni carri medi. Altri tre stavano ancora combattendo in Tunisia.
Sebbene tardiva, l’organizzazione data alla nuova Ariete era davvero poderosa. Il numero dei reggimenti che ne costituivano il nerbo di manovra era stato portato da due a tre. Il loro armamento ne accresceva la potenza di fuoco controcarri e l’estensione capillare di un gran numero di macchine cingolate ne esaltava la capacità di manovra.
Il numero dei reggimenti d’artiglieria era stato portato da uno a due, anch’essi potenziati nei calibri e interamente meccanizzati; a questi si aggiungeva il CXXXV battaglione semoventi controcarro da 74/34 (unico reparto con le fiamme rosso-blu della Grande Unità, Comandante il Maggiore dei carristi Aldo Riscica) che ne avrebbe irrobustito la tempra. L’organico generale prevedeva 9500 uomini. La 135^ Divisione era la più potentemente armata delle divisioni messe in campo dal Regio Esercito nel triennio di guerra.
Essa non era più una divisione di fanteria: i reggimenti carristi e bersaglieri erano stati sostituiti da unità di cavalleria che – controvoglia – s’erano dovute adattare ad assumere le forme e la forza dei reggimenti carristi e di fanteria meccanizzata avvalendosi largamente di istruttori e complementi tratti dai depositi dei reggimenti carristi.
Due dei tre reggimenti di manovra della nuova Ariete erano unità che, sciolte vent’anni prima, erano state resuscitate in fretta per quest’esigenza: nell’impossibilità di cambiare natura ai reggimenti di cavalleria allora in vita se ne dovettero evidentemente costituire di nuovi, dando loro i nomi di antiche unità.
Resta da chiarire perché nella primavera del 1943 (a guerra pressochè finita) si sia preferito dar corso alla meccanizzazione di quei reggimenti di cavalleria anziché riordinare in reggimenti i pur numerosi battaglioni carri medi che invece continuavano a vagare su e giù per la Penisola (isole comprese) o che erano in approntamento presso i cinque prolifici depositi della specialità. Forse si voleva far vedere ai diretti interessati quale forma e peso avrebbe potuto avere una divisione di cavalleria se tra il 1919 e il 1939 non avessero preferito fare altro anziché prendere atto del presente e prepararsi al futuro.
Riguardo alle zone d’ombra ancora non rischiarate possiamo fare mille congetture. A tal proposito, alcuni fanno notare che in quell’anno i carristi stavano iniziando a predisporsi per il passaggio sui carri pesanti, con bocca da fuoco da 75/34, mentre i semoventi di quel calibro già li avevano ricevuti. Certo è che i carristi di allora non presero affatto bene il fatto che gli fosse stato distolto un nome che essi giustamente ritenevano appartenere alle loro tradizioni, quelle che con tanto sacrificio essi avevano affermato. I relitti dei loro carri erano ancora fumanti in Tunisia e per loro quella assunta dallo Stato Maggiore dell’Esercito non era una decisione facile da comprendere.
Se non una scorrettezza, quei carristi la considerarono un’immeritata ingiustizia.
I mugugni dovettero essere tanti se il 15 maggio 1943 il Colonnello Comandante il 3° Reggimento Fanteria Carrista – unità scuola diretta discendente del Reggimento carri Armati, che per tutto il tempo della guerra aveva costituito il pilastro portante dell’intera organizzazione di mobilitazione delle unità corazzate di tutte le armi e specialità dell’Esercito e che condivideva la sede felsinea con il Reggimento corazzato “Lancieri di Vittorio Emanuele II” – sentì il bisogno di prendere carta e penna e, nel farsi ufficialmente portavoce del risentimento dei carristi, appose la propria firma sulla fiera lettera che di seguito pubblichiamo.
Malgrado per quattro lunghi anni i carristi le avessero prese di santa ragione combattendo a bordo dei carri palesemente inadeguati che venivano loro affidati e malgrado i nostri avi avessero già visto troppi compagni dei loro equipaggi ardere e farsi cenere in quelle macchine scadenti, i Carristi della primavera 1943 si dichiaravano gelosi delle loro tradizioni e ancora pronti a battersi, affermando il loro diritto a farlo ed – esterrefatti – si chiedevano perché si fosse deciso quell’esproprio ora che ormai erano consumati veterani di guerra.
Non servono le parole di chi scrive per spiegare o interpretare lo scritto del Colonnello Rispoli perché esso è sufficientemente schietto.
Noi che ci siamo innestati senza alcuna esitazione e senza mai alcun ripensamento nella tradizione più pura dei nostri Avi – se non altro perché abbiamo avuto la fortuna di conoscerli e di ascoltarne il racconto – e che ci siamo assunti il compito di tramandarne intatto lo spirito che ci era stato dato in temporanea consegna, non possiamo che provare un forte brivido nel leggere parole che trasudano di amore e fierezza per la nostra Specialità; sentimenti che i precedenti durissimi anni di guerra evidentemente non avevano per nulla scalfito.
Per essere forti quei carristi non avevano bisogno di prendersi il nome d’altri.
Lo scritto del Colonnello Rispoli altro non è che l’esplicitazione più autentica e fiera del nostro bel motto e quella lettera ci ricorda che il pesce d’aprile del 1943 non è un bel ricordo per noi carristi.
Tutto va ricordato, anche questo.
A distanza di 80 anni da quei giorni così crudi, non possiamo far altro che ammirare il temperamento dei nostri Avi. Non possiamo far altro che accodarci al loro orgoglioso esprit de corp e dichiararci ancora una volta completamente autosufficienti per quanto riguarda la gloria e l’onore militare.
Ferra Mole Ferreo Cuore.