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L’Artico ha tutte le carte in regola per diventare sempre di più un luogo cardine nella sfida geopolitica per un nuovo ordine mondiale, lanciata da Russia e Cina nei confronti degli Stati Uniti.
“La Cina è un importante stakeholder negli affari dell’Artico. Geograficamente, la Cina è uno “Stato vicino all’Artico”. […] I cambiamenti delle condizioni ambientali nell’artico hanno un diretto impatto sull’equilibrio climatico cinese, e, di conseguenza, sui propri interessi economici.” Così si apre il documento sulla Politica Cinese per l’Artico del 2018, che ha messo nero su bianco gli interessi dell’ex Impero del Centro verso un’area geografica ritenuta semplicemente troppo importante per lasciarne la gestione unicamente ai paesi rivieraschi.
L’interesse cinese per l’artico
L’interesse cinese verso le acque e i ghiacci del Polo Nord non è una novità. Già nel 1925 l’allora Repubblica di Cina firmava il trattato di Spitsberger, che regolamentava le attività commerciali e di ricerca nell’arcipelago delle Svalbard, di sovranità norvegese. Dal 2013, la Cina figura come “stato osservatore” nel Consiglio Artico, organo internazionale per gli affari della regione composto dagli stati rivieraschi: Canada, Stati Uniti, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Svezia, Russia (prima della sospensione post invasione dell’Ucraina). La dichiarata ambizione di diventare una “grande potenza artica” (jídì qiánguó in cinese) si riflette anche nel mondo accademico: il numero di articoli specializzati dedicati all’artico è quadruplicato nell’ultimo decennio, passando dai 400 del 2011 ai quasi 1600 del 2021.
Sul piano politico-amministrativo, è significativa la recente riorganizzazione ministeriale delle responsabilità sul programma di ricerca del Polo Nord: dalla State Oceanic Administration (SOA) al nuovo potente Ministero delle Risorse Naturali, il quale ha in carico la gestione anche dell’equivalente programma nel Mar Cinese Meridionale. Chiaro segno della volontà di Pechino di accrescere rapidamente la propria familiarità con l’area, per poi mettere in pratica simili iniziative a quelle – molto controverse – compiute nei bracci di mare adiacenti alle proprie coste. A livello geopolitico, il rapido scioglimento dei ghiacci artici consiste sì in un pericolo per l’ecosistema cinese – si stima che entro il 2070 oltre 20 milioni di cinesi dovranno migrare dalle proprie residenze costiere a causa l’innalzamento del livello del mare – ma apre molte nuove opportunità.
In primo luogo, la crescente navigabilità delle acque sopra il 66° parallelo ha portato la Cina a devolvere sempre più risorse verso la realizzazione della “Via della Seta Artica” (bīngshàng sīchóu zhīlù). Fino ad oggi, il grande progetto infrastrutturale della Belt and Road Initiative (BRI), lanciato dal presidente Xi Jinping nel 2013, si è dispiegato prevalentemente nei suoi rami terrestri in Russia e in Asia Centrale, e meno nella sua componente marittima. Questo squilibrio è dovuto prevalentemente a due fattori: l’instabilità di alcune zone toccate dalle rotte commerciali obbligate verso l’Europa, come il Mar Cinese Meridionale e le coste al largo della Somalia, e le storiche preoccupazioni di Pechino nei confronti del cosiddetto “dilemma di Malacca”. Coniata dall’ex segretario del Partito Comunista Cinese (PCC) Hu Jintao, questa espressione descrive la storica vulnerabilità cinese nel controllo dell’omonimo stretto nell’Oceano Indiano, passaggio obbligato per i flussi commerciali in entrata ed uscita dal paese, suscettibile ad un potenziale blocco navale da parte di Stati Uniti e alleati regionali in caso di future dispute internazionali con la Cina.
La Via della Seta Artica
Lo sviluppo della Via della Seta Artica ovvierebbe in parte a questa debolezza strategica, non solo perché le infrastrutture portuali e logistiche sulle quali farebbe affidamento si troverebbero quasi unicamente in territorio russo, quindi amico, ma anche perché la tratta per raggiungere i mercati europei sarebbe molto più diretta rispetto a quella attuale: tra le 1400 e le 4600 miglia nautiche in meno, con un risparmio di più di 127 miliardi di dollari di carburante. L’Artico è così presente nella mente dei decisori cinesi anche per le peculiarità uniche che presenta all’Esercito Popolare di Liberazione (EPL). Il Profondo Nord è centrale nelle strategie di deterrenza delle tre maggiori superpotenze attive nell’area, Cina, Stati Uniti e Russia, visto che la traiettoria più breve che i rispettivi missili intercontinentali potrebbero percorrere in caso di futuri scontri passa proprio sopra l’artico.
Inoltre, sempre più attenzione viene dedicata dai vertici miliari cinesi e statunitensi alle possibilità di utilizzo nell’area dei sottomarini lanciamissili balistici Tipo 094 in perlustrazione al Polo Nord. Nonostante gli indubbi vantaggi di una tale operazione – i satelliti non sono in grado di individuare i sottomarini sotto il ghiaccio – le difficili condizioni dei mari del Nord, e l’obbligato passaggio attraverso il sorvegliatissimo Stretto di Bering rende quest’opzione pur sempre meritevole di considerazione, ma difficilmente applicabile in tempi brevi. Le mire cinesi sull’artico devono fare i conti con il mutevole contesto geopolitico mondiale degli ultimi anni. Gli imponenti investimenti nei paesi rivieraschi all’artico, in termini di estrazione di risorse naturali, infrastrutture portuali, e ricerca scientifica, sono finiti sotto la lente d’ingrandimento dei governi beneficiari, nell’ottica delle sempre maggiori tensioni tra la Cina e l’Occidente.
I sospetti dell’utilizzo dual-use, sia civile che militare, dei progetti cinesi nell’area, denunciate apertamente dagli Stati Uniti nella Strategia per l’Artico 2022, sembrerebbe essere confermata dalla stessa dottrina militare cinese, che nel più recente Manuale sulla Scienza delle Strategie Militari del 2020 afferma che “fondere elementi civili e militari è il modo migliore che le grandi potenze hanno per ottenere una presenza militare polare stabile”. Con paesi quali la Svezia, la Danimarca e il Canada sempre più restii alle sirene cinesi, il contemporaneo indebolimento della Russia a livello internazionale, e la sua sempre maggiore dipendenza nei confronti della Cina, hanno fatto cadere almeno in parte le storiche diffidenze dell’Orso nel permettere un’eccessiva compenetrazione del Dragone in zone ritenute strategicamente vitali, come testimoniato dalle dichiarazioni congiunte di Xi e Putin nel loro recente incontro a Pechino.