All’apertura della pagina Wikipedia dedicata a Giuseppe Berto, qualcuno dovrebbe aggiungere un disclaimer: “Non adatto ai deboli di cuore”. Questo perché la biografia dello scrittore veneto è una delle più strazianti che si possano trovare. Un po’ come Nietzsche, che, come spesso viene detto, è diventato pazzo perché aveva capito tutto.
Anche l’anima di Berto sembra in continua sofferenza, in perenne ricerca di una casa dove sentirsi amata, in eterno conflitto con il mondo che la circonda. Sì, perché la croce che Berto è obbligato a trasportare è una di quelle opprimenti, ciclopiche, asfissianti. Parliamo di un intellettuale sia figlio del suo tempo, sia al di fuori di tutti i giochi da cui questo tempo è composto.
La giovinezza di Giuseppe Berto
Nato nel 1914, Giuseppe Berto si arruola volontario per la guerra d’Abissinia. Poi vuole combattere anche nella Seconda Guerra Mondiale, ma la sua domanda viene rifiutata. Allora si arruola nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e viene inviato in Africa, dove entra a far parte del VI battaglione Camicie Nere, che viene praticamente annientato durante la ritirata dalla Cirenaica alla Tunisia.
Affannosamente si salva e passa al X Battaglione Camicie Nere “M”, con il quale cade prigioniero al termine della campagna di Tunisia, nel ’43. Tutta questa parte della sua vita sembra completamente in contraddizione con ciò che viene scritto ne Il Male Oscuro. Che fine ha fatto quel giovane che faceva di tutto per andare a combattere? Che era entrato nell’Avanguardia, che scriveva racconti sulla patria di stampo dannunziano?
Cosa ha a che vedere con l’intimorito Berto de Il Male Oscuro, che non è neanche in grado di farsi pagare le sceneggiature dal produttore? Ecco. Sono tutte domande da un milione di dollari, a cui forse può rispondere solo lo piscoanalista che lo ha avuto in cura.
Alla ricerca di Giuseppe Berto
Domanda successiva: che fine ha fatto Giuseppe Berto? Perché non viene mai ricordato, nominato, studiato, approfondito? Per la popolazione comune, è come se non fosse mai esistito. E invece, stiamo parlando di uno scrittore che ha avuto un successo clamoroso già con il primo libro, Il Cielo è Rosso, edito da Longanesi; che ha vinto una miriade di premi; che non si è mai legato né ad un partito politico, né a una corrente letteraria, ma che ha sempre scritto ciò che voleva scrivere, ciò che l’istinto primordiale di uno scrittore lo obbligava a mettere su carta.
Giuseppe Berto era ciò che in America verrebbe definito un maverick: anticonformista, individualista, anarchico. Eppure, ne Il Male Oscuro, il protagonista è alla costante ricerca di un luogo dove sentirsi a proprio agio, proprio perché da solo si sente oppresso dai demoni creati dalla sua mente. Il romanzo esce nel 1964.
È sostanzialmente l’autobiografia dell’autore, ma scritta di getto, come se la sua testa fosse stata aperta e le parole fossero uscite come un fiume che ha rotto gli argini. In 500 pagine di romanzo, si può trovare sì e no un punto ogni due-tre facciate. “Inaffrontabile”, direte voi. Tutt’altro: Berto riesce a creare un’opera appassionante, patetica e toccante.
Il male oscuro
L’utilizzo magistrale della punteggiatura fa sì che il lettore non perda mai il filo del discorso, anzi: si tende ad accelerare per tentare di fruirne quasi come se fosse un racconto orale. I periodi enormi sono come una strada in discesa: si inizia piano piano, ma poi ci si lascia trasportare fino all’arrivo, tre pagine dopo, di un punto.
L’opera è scritta alla stregua di una seduta psicoanalitica, in cui, in teoria, ci si dovrebbe stendere sul lettino e iniziare a parlare ininterrottamente, utilizzando le prime parole che vengono alla mente. Un’altra caratteristica è l’abbacinante capacità di Berto di affrontare tematiche oscure, profonde, sofferte e comunque strappare un sorriso al lettore. “Insomma: questo sta parlando della sua vita e mi sta dicendo che si vuole suicidare! Come può venirmi da ridere?!”.
È proprio qui che sta il suo sapiente uso del sarcasmo. La risata che ne esce è amara: arriva come un pugno in pancia. È come quando, ad un funerale in cui piangi come un bambino, l’amico che sta ricordando il morto racconta “quella volta in cui…” e tu scoppi in un sorriso. È un momento catartico, purificatorio, ma arriva come un calcio nei co***ni.