Le proteste e la continuità del regime in Iran

Dopo la morte di Masha Amini, ragazza di origini curde arrestata dalla polizia con l’accusa di non portare il velo in modo decoroso, proseguono le proteste contro il regime iraniano di Ebrahim Raisi.

Il 16 settembre è morta a Tehran, capitale dell’Iran, Masha Amini, ragazza di origini curde arrestata dalla polizia morale del regime teocratico con l’accusa di non portare il velo in modo decoroso. Deceduta – a detta delle autorità – a causa di un infarto, la morte di Masha Amini è avvenuta in seguito alle percosse subite dai poliziotti del regime. Il suo decesso ha scatenato numerose proteste, che proseguono da più di un mese in oltre ottanta città del paese. Questo è il mero fatto di cronaca in svolgimento in questi giorni, ma partendo da ciò che sta accadendo si può ricostruire uno spaccato davvero pregno di significato su quello che è, ed è stato, il cammino della teocrazia iraniana dal suo inizio ad oggi; un cammino che è forse giunto a un momento di rottura.

Quadro Istituzionale

Per capire al meglio cosa possono comportare queste diffuse proteste, è necessario avere chiaro il funzionamento politico e alcune caratteristiche della Repubblica Islamica dell’Iran. Anzitutto uno sguardo all’apparato istituzionale del regime. Instauratosi nel 1979 in seguito a una rivoluzione iniziata da liberali, bazarì e sinistre, successivamente egemonizzata e guidata dagli esponenti più radicali e militanti del clero Sciita, la rivoluzione islamica portò alla creazione di un apparato statale sdoppiato. Alla stesura della costituzione, momento di palingenesi del nuovo Stato scaturito dopo mesi di lotte di piazza rivoluzionarie, i mullah (i “preti” dell’Islam Sciita) guidati dall’Ayatollah Khomeini non rifiutarono in toto le istituzioni repubblicane che i rivoluzionari slegati dal clero avevano proposto durante il governo di transizione. Ne crearono bensì di nuove – di stampo religioso –  da affiancare a quelle laiche che venivano proposte. Questi apparati pervasi di sciismo che videro la luce dopo il 1979, sia pubblici che privati, avevano lo scopo di garantire al clero una presa salda sulla scena politica, giudiziaria e persino economica del paese.

Capire il concetto di dualità istituzionale è fondamentale per comprendere l’Iran e il funzionamento dei suoi complessi meccanismi politici. Questo non è il luogo per dilungarsi sulle Bonyads, le fondazioni religiose che controllano enormi asset economici del paese, ma il fatto che persino nell’ambiente economico, in un mondo “globalizzato” e improntato al libero mercato, la rivoluzione sciita sia riuscita a portare un suo “doppio”, un suo analogon delle grandi Holding private occidentali ma a carattere religioso, dimostra quanto i mullah siano stati pervasivi nella loro “Islamizzazione” della Repubblica Iraniana. Si definisce infatti l’Iran come uno “Stato Duale”, in quanto ogni istituzione (e il potere da essa esercitato) si presenta sempre divisa in due versioni: una laica – quasi sempre elettiva – e una religiosa, quasi sempre nominale e quindi più potente, poiché collegata a figure chiave della società iraniana. I membri di queste ultime sono infatti nominati dagli stessi apparati, e non eletti tramite votazione. Parlando di figure chiave del regime, che non solo è diviso dalla dualità istituzionale ma anche pervaso sino al midollo da relazioni clientelari, nepotistiche, parentali e amicali fondamentali per determinare chi potrà occupare certe cariche e chi sarà invece rifiutato, troviamo in cima alla piramide del potere l’Ayatollah Khamenei, il Rahbar: la Guida Suprema della rivoluzione. Questa carica possiede  l’ultima parola sull’esercizio del potere esecutivo in quanto la Guida è l’unica figura in grado di interpretare la parola di Dio, che è ciò che più di ogni cosa emana sovranità, e concede quindi il diritto a governare, prima ancora della sovranità popolare. La parola di Dio è l’unica vera legge (Shari’a), ed è da lì che discende lo Stato e dunque anche la Repubblica Islamica dell’Iran: essa è espressione plastica, in forma di stato di diritto, della volontà di Allah. Nel pensiero teologico-politico sciita dell’Ayatollah Khomeini, padre della nazione, l’Iran doveva essere una Res Publica strutturata col clero al potere, ceto incaricato di organizzare in uno stato la comunità dei fedeli secondo i precetti dell’Islam, al fine di creare una nazione predisposta ad accogliere il ritorno del dodicesimo Imam, nascostosi oramai da circa mille anni, che gli sciiti attendono messianicamente.

Schema del meccanismo di nomine ed elezioni della Repubblica Islamica.

Questa sottile motivazione teologica – purtroppo qui solamente accennabile – non è un argomento superfluo o su cui si può glissare, bensì il cardine ideologico con cui il clero militante poté conquistare – dal suo punto di vista con piena legittimità proprio poiché agente su mandato divino – il potere, e mantenerlo per tutti questi anni di incontrastato dominio sul paese.

Il dualismo istituzionale

La Costituzione della Repubblica Islamica fu scritta sotto la supervisione dell’Ayatollah Khomeini che sì voleva una forma di espressione democratica, ma per assicurarsi che i governanti eletti agissero probamente era necessario utilizzare i giuristi, esperti della parola di Allah, come garanti e controllori dell’operato dei governi. Per questo motivo la carica più alta dello Stato doveva essere un giurista supremo: un Ayatollah.

Alla Guida Suprema, eletta esclusivamente da un consiglio di altri religiosi (l’Assemblea degli Esperti) e di cui si è già discusso, equivale in veste laica un’altra carica che esprime il potere esecutivo: il presidente della repubblica. Eletto dalla popolazione tra candidati di comprovata fede islamica, il candidato deve prima essere definito come “accettabile” da un’assemblea formata da giuristi religiosi e non. Il presidente è la figura che rappresenta la Repubblica soprattutto all’estero, compie viaggi di stato e governa, limitato nelle sue azioni dalla supervisione della Guida Suprema.

Questa sovranità sdoppiata e frammentata tra un grado divino e uno popolare non è solo nell’esecutivo, ma prosegue anche nel ramo legislativo col parlamento: il Majles, laico, ha sopra di sé una piccola camera alta, detta “Consiglio dei Guardiani”, religiosa, che vaglia i candidati dei vari “partiti” presentatisi alle elezioni – sia parlamentari che presidenziali – e accetta o rifiuta le candidature, oltre ad avere il potere di bocciare i disegni di legge.

E ancora le forze armate sono duali: da una parte stanno i Pasdaran (corpo dei guardiani della rivoluzione), fedeli soldati degli Ayatollah votati alla difesa del regime e utilizzati soprattutto in azioni verso l’estero, compito necessario vista la vocazione universale della rivoluzione che prevede anche la sua esportazione. È tale compito che li ha resi molto noti nel corso degli anni. Famosissime in tal senso le brigate Quds, branca d’élite del corpo militare dei guardiani che conduce operazioni speciali, conosciute specialmente per il supporto all’Hezbollah libanese, ad Hamas, alla lotta condotta contro l’ISIS in Iraq e anche per la morte del loro comandante, Qassem Soleimani, avvenuta nel gennaio 2020 ad opera degli americani, notizia a cui la stampa diede molto spazio.

Sul versante laico delle FF.AA. si trova invece l’Artesh, erede dell’esercito dello Shah Pahlavi, a cui sono date principalmente prerogative inerenti alla difesa nazionale, piuttosto che del regime dei mullah.

Persino l’attuale forza di polizia – denominata LEF, Law Enforcement Force – è nata dall’unione di corpi laici (gendarmeria e polizia locale) e di corpi religiosi. La morte di Masha Amini, imputata erroneamente da alcuni media italiani ai Basiji, è invece da ascriversi alla frangia religiosa delle LEF, chiamata appunto “Guidance Patrol”, polizia morale, erede dei temuti Komiteh della rivoluzione. Questi “Comitati” eranotribunali di quartiere dotati di milizie che, sin dai primi mesi del governo di Khomeini, colpivano sul territorio tutti gli oppositori del cleroe punivano coloro che non seguivano il codice comportamentale islamico. I “comitati della morale islamica”, confluirono nel 1992 nel resto delle forze dell’ordine, e sono oggi un corpo che pattuglia le strade e arresta chi non dimostra di seguire l’etica dell’Islam sciita a livello di vestiario o di attitudine.

Pasdaran – Uomini del corpo dei Guardiani della Rivoluzione durante l’esercitazione “Great Prophet XVII”.

I Basiji a cui si è accennato precedentemente sono invece una forza militare, nati durante la guerra Iran-Iraq per inquadrare i giovani da mandare al fronte e sono stati poi accorpati ai Pasdaran nel 2009. Alcune frange più radicali agiscono sì,  talvolta, come “Guidance Patrol”, ma prevalentemente il compito dei Basiji è di contrastare proteste e disordini svolgendo il ruolo di unità antisommossa (motivo per cui sono spesso i responsabili della morte di chi scende in piazza), e non come forza dell’ordine dedita solo alla sorveglianza morale.

L’unicità del modello iraniano sciita: reazione contro l’Occidente

Questa infarinatura data al lettore riguardo la struttura del regime teocratico è necessaria per avanzare nel ragionamento che si vuole fare in questa sede, e sostenere una tesi.

La rivoluzione islamica è stata una forza sorprendente, emersa dalla cultura di un popolo che ha cercato di opporre un suo modello, scaturito dalla propria tradizione autoctona di sciismo e identità persiana alla modernità Occidentale, quindi non un modello importato come invece furono il comunismo o il socialismo dei vari partiti Ba’th che abbatterono le monarchie mediorientali di metà Novecento. Tuttavia la forza di questa contrapposizione all’Occidente, una missione per i cittadini iraniani  che vissero attivamente la Rivoluzione, è stata pervasiva nelle due, tre generazioni di uomini che vissero l’epopea rivoluzionaria o i suoi strascichi. Giunti oramai a una quarta generazione di iraniani, nati negli anni Novanta senza aver vissuto su di sé le proteste e la lotta contro il regime Pahlavi prima e la guerra all’Iraq poi, oggi il regime teocratico del 1979 si regge su un messaggio tramandato, e non su qualcosa che le nuove masse hanno incamerato profondamente in sé, vivendolo sulla loro pelle. In particolare chi appare distante dai valori dell’islamismo sciita radicale sembrano essere le masse urbane istruite, specie gli studenti. Queste masse, giovani, sono oggi numerose (il 32% della popolazione ha tra i 20 e i 33 anni) e con abitudini differenti da quelle dei loro padri, molto legate alla rivoluzione digitale: i ventenni e i trentenni non si definiscono più unicamente come cittadini fedeli alla rigida teocrazia dei Mullah.

Generazione del cambiamento?

L’anno dopo la rivoluzione, il 1980, vide l’Iran attaccato dall’Iraq di Saddam Hussein, che tentò di prendere possesso dei pozzi petroliferi della regione tra Abadan e Bassora. Gli iracheni erano meglio equipaggiati degli iraniani, i quali tuttavia possedevano un maggior numero di effettivi, peraltro pervasi dal fanatismo di dover difendere la rivoluzione religiosa appena compiuta. Chi guidava l’Iran in quegli anni bellici post-rivoluzionari erano individui di tre generazioni: la “guardia” di Khomeini, composta dal clero militante, all’epoca già anziano; i loro seguaci della prima ora, uomini di età superiore ai trenta-quarant’anni (come Khamenei o Rafsanjani ) e infine v’erano dei giovani capi popolo con ruoli secondari, come Ahmadinejad, emersi soprattutto dal movimento studentesco rivoluzionario e dai komiteh, che hanno poi fatto carriera durante e dopo la guerra. I giovani attuali, nati tra il 1990 e il 2000, appunto un terzo della popolazione, sono i figli di chi è sopravvissuto al conflitto, e non hanno vissuto nulla della rivoluzione e di quel moto di reazione anti-occidentale che la pervase. Non hanno sperimentato altro che la scarsa libertà che il regime offre, impedendo l’associazionismo e bloccando le libertà di stampa e di pensiero in un mondo sempre più interconnesso da cui l’Iran, nonostante la censura e l’isolamento imposti, non è totalmente sganciato.

Piramide demografica iraniana, si noti la fascia 22-34 anni.

I giovani, ma soprattutto le giovani che protestano oggi, sono sintomo di forte malcontento sociale se in una società come quella iraniana, sciita e radicale, dove le donne dipendono nelle loro decisioni dal benestare di mariti, padri e fratelli, possono scendere in piazza in numeri così elevati. Se ciò accade è perché evidentemente nelle loro case qualcuno approva tale condotta. È dunque probabile che per ogni manifestante attivo vi siano loro congiunti che concordano sulla critica al governo, per quanto costoro non vadano materialmente per le strade. Per evitare infatti che i numeri dei contestatori aumentino, il regime impedisce di celebrare i funerali pubblici di coloro che muoiono durante le sommosse. Tale divieto è frutto dell’esperienza che il clero fece durante i moti contro lo Shah: il clero è memore di quanto proprio i funerali furono il motore che nel 1978-1979 gli permise di trionfare. La folla protestava contro il re nelle piazze e negli scontri con le forze dell’ordine capitava che morisse un manifestante; al suo funerale amici e parenti riuniti nel dolore e nella rabbia contro il regime venivano incitati dai mullah a ribellarsi allo Shah e così invadevano nuovamente le strade, si scontravano con la polizia che sparava, causando in tal modo altri funerali e così via, in una spirale che fu quella che portò alla vittoria finale di Khomeini. Questa forza del rito funebre è tipica dell’Islam sciita, che ha nel martirio e nella celebrazione dei martiri uno dei suoi pilastri (si pensi ai fotogrammi delle città iraniane con volti di persone – appunto i martiri e i grandi ayatollah – dipinti sui muri, agli incroci e sui cartelli nelle strade) . Per questo la tradizione prescrive di svolgere tre funerali per il caduto: al terzo, decimo e quarantesimo giorno dalla morte si celebra il cordoglio, cosa accaduta anche il 27 ottobre 2022 a Saqem, dove in diecimila si sono radunati per festeggiare i quaranta giorni dalla morte di Masha Amini.

Ora, pur constatando il peso che i giovani hanno nella società iraniana, si deve tener presente che nelle campagne, dove comunque vive più del 25% della popolazione, il clero domina ancora incontrastato. Il sistema delle clientele che i religiosi gestiscono gli dà saldo controllo su larghe fette di società: gli permette di avere sempre l’ultima parola sulle nomine presso aziende, sia private che di stato, fondazioni religiose, incarichi pubblici (dalle poste alla polizia fino alla televisione). Le bonyads poi, ossia le fondazioni religiose, sono holding considerate come beni del clero – dunque non tassabili – e si stima valgano circa il 20% del PIL dell’intero paese: un’economia che per 1/5 è fantasma. Peraltro le bonyads ricevono il khums, ossia l’imposta religiosa del quinto che i musulmani versano come elemosina ai meno abbienti. Questo poiché sono le bonyads a erogare l’elemosina, gestendo così un welfare state islamico monopolizzato da enormi aziende clericali, che forniscono ai mullah l’appoggio incondizionato dei più poveri, destinatari di questi larghi ammortizzatori sociali.

Altresì la grande industria, specialmente quella più tecnologica – i cui prodotti di punta vediamo bombardare Kiev e le città ucraine in questi giorni – è controllata dai Pasdaran o da persone a loro strettamente collegate. Per questo motivo è vero che le proteste attuali hanno una forza senza precedenti nella storia della Repubblica Islamica, ma gli apparati del regime contro cui sono rivolte sono un network fittissimo di rapporti e relazioni incrociate che non ha certo intenzione di essere rovesciato facilmente.

Per questo motivo se le proteste verteranno in senso anti-islamico non avranno fortuna, in quanto contestare la totalità del regime permetterà allo stesso di difendersi in modo coeso. Puntare invece l’indice verso la corruzione, il clientelismo, la pessima gestione di un’economia peraltro strangolata dalle sanzioni e l’eccessivo controllo morale che il clero esige potrebbe essere più efficace, perché non sarebbe una dichiarazione di totale rifiuto dello status quo, bensì una richiesta di cambiamento.

Ritenere che gli iraniani vogliano passare le loro giornate tra Starbucks e MacDonald solo perché le donne a Teheran (e non solo) protestano senza il velo è di una cecità culturale imperdonabile, sia guardando ai trascorsi non amichevoli avuti con gli occidentali negli ultimi 40 anni, sia non considerando che la tradizione alide e persiana dà all’Iran una fortissima e specifica identità culturale. Certo i giovani chiedono aperture, tutela dei diritti e libertà individuali, ma identificare le loro richieste come un appiattimento sulla cultura occidentale non è la realtà dei fatti, seppur questo trapeli nella narrazione mainstream. Se mosse in chiave riformista le proteste potrebbero acuire le linee di faglia, le rivalità personali e aumentare gli attriti presenti tra le varie fazioni dell’arco istituzionale; alcune potrebbero fare proprie le istanze delle piazze per tentare di assestare una spallata a rivali e concorrenti ed esprimere un nuovo corso alla vita politica iraniana, assente dalla scena politica del paese dal Movimento Verde del 2010.

Proteste del Movimento Verde di Hossein Mousavi.

Qualche cigolio già si è visto quando il capitano Sajjad Asgari dell’aviazione dell’Artesh ha ammonito la polizia morale ai primi di ottobre, intimandole di non reprimere le proteste con brutalità, mostrando come l’esercito (o buona parte di esso) sia contrario a certi metodi. Questo è perfetto esempio di come la dualità istituzionale possa generare tensioni tra un apparato del sistema e l’altro. Né il clero (che non lo era nemmeno nel 1979) né i Pasdaran sono corpi uniformi e monolitici; ci sono fratture al loro interno, ma se minacciati da un nemico comune certo faranno fronte unito. Questa la tesi di questo articolo: le proteste, se rivolte “solo” contro certi aspetti del regime, percorreranno probabilmente la via migliore per ottenere qualche successo, dichiarando che l’obiettivo è solo un cambiamento parziale: economia più aperta, meno restrizioni associative e morali e diminuzione della censura. I moti del quarantesimo giorno della morte di Masha Amini, peraltro, esprimono questa visione: protestare contro il regime religioso mentre si celebra un rituale religioso mostra come non sia in discussione l’essere osservanti sciiti. Invece, se i moti criticheranno l’intero stato islamico o il diritto dei mullah ad avere un peso nella vita istituzionale (separazione stato-chiesa) verranno facilmente bollati come “filo-occidentali” e repressi con facilità dall’intero sistema. Questo è l’unico modo affinché una delle fazioni dell’establishment tenti di cavalcare l’onda, così da esacerbare le faglie negli apparati e unico modo per provare a rompere col passato, e portare infine il paese verso una nuova stagione.

Stefano Mauro Forlani

Fonti

Capitano dell’Artesh contro la polizia morale:

Demografia:

https://population.un.org/wpp/Download/Files/1_Indicators%20(Standard)/EXCEL_FILES/1_General/WPP2022_GEN_F01_DEMOGRAPHIC_INDICATORS_REV1.xlsx

Pasdaran e Forze Armate:

F. Wehery, J. D. Green, B. Nichiporuk, A. Nader, L. Hansell, R. Nafisi, S. R. Bohandy, The IRGC in Context: Iranʹs Security and Political Landscape in “The Rise of the Pasdaran”, Rand Corporation, 2009.

-F. Wehery, J. D. Green, B. Nichiporuk, A. Nader, L. Hansell, R. Nafisi, S. R. Bohandy, The IRGC in Context: Iranʹs Security and Political Landscape in “The Rise of the Pasdaran”

Bonyads:

https://www.mei.edu/publications/iranian-para-governmental-organizations-bonyads

-D.E.Thaler, A. Nader, S.Chubin, J.D.Green, C.Lynch, F.Wehery, Mullah, Guards and Bonyads, RAND Corporation, Santa Monica, 2010.

Stato Duale e Repubblica Islamica:

-M. MirAhmadi, Religious Democracy in Iran: Discursive Analysis of Imam Khomeini’s Political Thought, in “Journal of Islamic Political Studies”, v. 1, Shahid Behesti University, Teheran, marzo 2019.

-M.Emiliani, M.Ranuzzi de Bianchi, E.Atzori, Nel nome di Omar, Odoya, Bologna, 2008.

-M.Campanini, La politica nell’Islam, il Mulino, Bologna, 2019.

– E. Abrahamian, Why the Islamic Republic has Survived in “The Islamic Revolution at 30”, n. 50, Middle East Research and Information Project (MERIP), primavera 2009, pp. 10-16.

Islamismo nella costituzione

-S. A. Arjomand, Constitution-Making in Islamic Iran: The Impact of Theocracy on the LegalOrder of a Nation-State, in “History and Power in the Study of Law”

Fazionalismo e Clientele:

-W. Buchta, Who rules Iran?,The Washington Institute for Near East Policy, Washington, 2000

Polizia Morale (e non Basiji):

https://www.dw.com/en/irans-morality-police-what-do-they-enforce/a-63200711

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