Sessantacinque anni fa, il 27 settembre 1957, Leo Longanesi moriva improvvisamente per un infarto mentre si trovava nel suo tavolo da lavoro. Fece in tempo a dire: “Proprio come desideravo, rapidamente e tra le mie vecchie cose”.
Era il millenovecentoventisette. Su «L’Assalto» di Bologna, diretto dal fascistissimo Giorgio Pini, venne pubblicata l’autobiografia del giovanissimo Leo Longanesi: “Sono nato a Bagnacavallo nell’agosto del 1805, ma questo non toglie ch’io abbia compiuto appena ora il ventiduesimo anno d’età. Ho bazzicato il ginnasio e il liceo, e sono sempre passato col sei; tutto quello che non so, l’ho imparato in quegli anni. La mia ignoranza è infinita. Le apparenze hanno per me uno straordinario valore e giudico tutto dall’abito. Il mio motto è: Si vede subito. Non conosco il più profondo dell’io ed ho il coraggio di essere superficiale. Adoro i caratteri bodoniani e le ragazze dalle gambotte cubiste. Sono fascista e ritengo necessario salvare l’Italia dai fotografi. Per vivere alla carlona ogni strada è buona”. Depistando il lettore più ingenuo, facendolo sobbalzare per quello che potrebbe passare come refuso o errore di stampa, in quel “sono nato a Bagnacavallo nell’agosto del 1805” c’è tutta l’essenza del mondo di Leo Longanesi. Era nato nel 1905, ma era un uomo dell’Ottocento, un secolo custode della tradizione e dei buoni costumi italiani, che odorava sigari e di vecchi libri. Il primo fascismo, quello della provincia, quello delle sagre di paese e dei piazzali, fu sempre al centro della vita di Longanesi. Il quale, più che fascista, fu mussoliniano. E, quando Mussolini cadde, dovette darsi alla fuga. L’autore del “Vademecum del perfetto fascista”, l’uomo che coniò il motto “Mussolini ha sempre ragione” e che scrisse i più riusciti slogan di propaganda del regime come “Taci, il nemico ti ascolta”, si ritrovò inviso ai nazifascisti.
Il fascista antifascista
Longanesi ormai da tempo perse la fede verso il regime e nei suoi giornali la fronda, l’anticonformismo e la satira verso l’imponente retorica che il MinCulPop aveva eretto faceva la stecca alle disposizioni della propaganda. “Un giorno raccontò d’essere diventato antifascista in tram, guardando il didietro di un console della milizia in piedi davanti a lui”, scriverà Indro Montanelli. La sua adesione al fascismo fu della prima ora, ma questa avvenne quando il regime non aveva inutili ambizioni imperiali, non inneggiava alla superiorità della stirpe e, soprattutto, non intendeva sostituire le vecchie tradizioni italiane con quelle costruite ex novo sull’uomo nuovo fascista. Il fascismo di Longanesi era quello della sua Romagna, era quello anarchico del nonno Leopoldo Marangoni, era quello delle cose fatte in casa e di Strapaese, movimento culturale e letterario che proponeva la continuazione delle tradizioni paesane, la valorizzazione del territorio nazionale e lo spirito patriottico che i reduci della prima guerra mondiale avevano ereditato da Gabriele D’annunzio. Era quel fascismo che riprendeva lo spirito anarchico del Mussolini di quegli anni: “Voi siete anarchico, siatelo per molti anni finché potete. È una ricetta per restare giovani”, gli disse una volta Mussolini mentre passeggiavano sulla spiaggia di Cesenatico. E Longanesi, anarchico e conservatore allo stesso tempo, quest’uomo dell’Ottocento cresciuto leggendo Sorel e Rimbaud in quell’8 settembre si trovò in mezzo a due fuochi. Da una parte i fascisti, i quali l’accusavano per il suo antifascismo, dall’altra gli antifascisti, che lo accusavano per la militanza alle attività del regime.
Il rifugio a Napoli
Trovò rifugio a Napoli e lo sconforto affiora dal suo diario: “Noia, delusioni, miseria, pioggia, luce di candele e odor di cavoli fatti in casa. Rifarsi una vita in condizioni così poco favorevoli, fra stranieri stupidi e orgogliosi, che giudicano tutti gli italiani ladri e ruffiani, non è così facile, soprattutto a quarant’anni, quando non si crede più con estrema forza ai grandi ideali, e soprattutto quando questi ideali non ci sono. Passiamo i giorni in casa a chiederci: “Che cosa faremo?””. Nell’Italia del dopoguerra tutti cercarono di crearsi una nuova verginità e nessuno era mai stato fascista. Montanelli raccontò che, all’arrivo di Longanesi a Milano nel giugno del ’45, il giornale “L’Italia Libera” ospitava un trafiletto nel quale si deplorava che Longanesi non avesse fatto in tempo a giungere nel capoluogo lombardo per essere appeso per i piedi alla famosa pompa di benzina di piazzale Loreto. Scrive Montanelli: “Il caso volle che proprio l’indomani incontrasse l’incriminato. S’era in un pubblico locale di Montenapoleone, infestato anche quello di partigiani. E il poveretto, entrando, rimase disorientato quando si trovò di fronte a Leo, che gli puntava il dito accusatore. E di colpo, saltando come un misirizzi su una sedia e additando agli istanti partigiani il malcapitato, proruppe in questo straordinario grido: “È un antifascista! Prendetelo!””.