Ventuno anni senza Indro

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Indro Montanelli e la sua Olivetti lettera 22 @Wikipedia

Ventuno anni fa, il 22 luglio 2011, a Milano moriva Indro Montanelli. La sua fu una vita incredibile, carica di esperienze straordinarie, che lo portarono dal primo fascismo all’esperienza coloniale in Africa, dalla prigionia a San Vittore alla rocambolesca fuga in Svizzera, fino alla poltrona più odiata e ammirata del giornalismo italiano.

Milano, luglio 2001, via Solferino 28. Nei corridoi del grande palazzo che dal 1904 ospita la sede del «Corriere della Sera» il ronzio dei condizionatori, che operosamente refrigeravano quella calda e umida giornata estiva, veniva sopraffatto da un suono incessante, dallo squillo di un telefono che echeggiava autorevole dall’ufficio del direttore Ferruccio de Bortoli. Il direttore entrò nella stanza e rispose al telefono. Letizia, nipote di Colette Rosselli, che si trovava nella casa di cura La Madonnina, gli comunicò le ultime volontà che Indro Montanelli le aveva riferito, con un filo di voce, disteso su un funereo letto d’ospedale mentre i tubi che gli attraversavano il naso riuscivano ancora a tenerlo in vita, a far respirare quel gracile corpo ormai scheletrico. “Giunto al termine della sua lunga e tormentata esistenza, Indro Montanelli, giornalista, prende congedo dai suoi lettori”.

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Gli anni nei quali Montanelli si formò, i Trenta e i Quaranta, incisero con le loro straordinarie esperienze a quella fortunata e insidiosa ascesa, che hanno permesso al fegatoso toscano di diventare il più grande giornalista italiano del Novecento, cominciata quando la maggior parte dei giovani suoi coetanei erano, o credevano di essere, fascisti. Per i ragazzi di quegli anni il fascismo era il campeggio, le gite in mare e in montagna, il gioco, lo sport; era appartenere a un sistema dinamico che azzerava la sete d’azione che quei ragazzi sognavano leggendo i romanzi di Kipling, sfilando alle parate e ascoltando gli avventurosi racconti dei reduci della Grande Guerra. E naturalmente, colui che rendeva possibili quei vivaci avvenimenti era, agli occhi di quei tanti giovani, Mussolini.

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Intervistato nel 1972 da Gianni Bisiach, Montanelli disse: “Lo confesso, quando vedo Mussolini mi si rimescola dentro, perché sono i miei vent’anni, i miei stupidi e bellissimi vent’anni. E non li posso rinnegare”. Quando il 28 ottobre del ’22 gli squadristi entravano a Roma e Mussolini veniva nominato capo del governo, il giovane Indro si trovava a Rieti. L’Italia era piacevolmente eccitata e anche quel tredicenne, insieme a un suo compagno di classe, Elio, figlio del sottoprefetto, decise di marciare su quella città laziale dove il padre, Sestilio, faceva il preside di liceo. Indro era lungo e secco come un chiodo, tanto che i pantaloni risultavano talmente corti da scoprire le caviglie; Elio era cicciottello, con i pantaloni troppo stretti da non contenere la pancia. Ed entrambi, in camicia nera, fischiettando l’inno Giovinezza, attraversarono le strade di quella città tra gli incuriositi sorrisi generali. “L’obiettivo era quello di far prigionieri i nostri padri, quello mio e quello del mio compagno di classe. Ci presero a calci nel sedere, naturalmente”. Anche da più grandicello, Indro credette di essere fascista e di doverne servire la causa.

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Nel ’34 si trovava in Francia, dove si guadagnava da vivere scrivendo per il giornale bilingue «La Nuova Italia», che stava particolarmente a cuore a Galeazzo Ciano. Un pomeriggio di novembre fu inviato al circolo liberale Union pour la vérité e, tra i settanta partecipanti, vi era anche Carlo Rosselli. Finite le relazioni, venne chiesto: “C’è un fascista?”. E Indro prese la parola: “Noi fascisti siamo antiborghesi, fortemente antiborghesi. L’errore di Mussolini è di non aver fatto colare il sangue. Perché il sangue è necessario. Probabilmente lo faremo scorrere in avvenire”. Rosselli racconterà l’episodio, il 30 novembre, su «Giustizia e libertà»: “Il ragazzo non sembra antipatico. Ma il fascismo gli ha tolto la facoltà di pensare. Ragiona per Attenti! Riposo!, per formule applicate con lo sputo. Cazzotti intellettuali tirati nel vuoto”. Ma nemmeno due anni più tardi, qualcosa in Montanelli cambiò: la guerra africana aveva svelato, al giovane giornalista, tutto lo scenario di cartapesta che il regime aveva costruito con la propaganda. Scrisse un articolo che miracolosamente sfuggì alla censura e pubblicato sull’«Italia letteraria»: “Dopo quattordici anni di tensione ideale”, costruita da Mussolini, e dopo “un crescendo di parole”, chi ha partecipato a questa guerra è adesso afflitto da un certo scetticismo”. “Coscienza è una parola che comincia a scomparire dal linguaggio usuale”, sostituita dal “dovere: imperativo, standardizzato, uguale per tutti”. L’articolo non sfuggì a Rosselli, che ancora si ricordava di quel giovane ragazzo dal collo lungo: “È un caso di coscienza”, scrisse Rosselli, pronosticando che l’impresa imperiale avesse guarito “Indro Montanelli da molte illusioni”. E così fu.

2 risposte

  1. Salve, mi piacerebbe che approfondiste un pò meno superficialmente il giornalista Montanelli ad esempio con le fonti citate in questo articolo, così forse potreste essere un pò più obiettivi e fare articoli di livello medio-alto e non medio-basso per un pubblico domenicale e di basso livello culturale, studiatevi le fonti con calma grazie
    https://www.stradeonline.it/diritto-e-liberta/4244-la-sposa-bambina-di-montanelli-e-veramente-esistita#

  2. Le accuse infondate a Pinelli

    Sono due, in particolare, i ricordi di Montanelli che le figlie di Pinelli hanno voluto condividere pubblicamente in questi giorni sui loro profili Facebook. Il primo riguarda le menzogne che il “grande giornalista”, come lo definisce ironicamente Claudia Pinelli, scrisse riguardo al padre sul “Giornale”. “Il 24 ottobre 1980 Montanelli scrisse di aver saputo, undici anni prima, cioè subito dopo la strage di Piazza Fontana, che Giuseppe Pinelli fosse un informatore della polizia e avesse confidato al commissario Calabresi che gli anarchici stavano preparando ‘qualcosa di grosso’ – spiega Claudia Pinelli -. Quando avvenne la strage non resistendo all’idea che i suoi compagni lo qualificassero come delatore, si sarebbe suicidato gettandosi dalla finestra… Inutile dire che erano tutte menzogne”.

    Quando poco dopo, durante il processo d’appello per la strage di Piazza Fontana che si tenne a Catanzaro, il giornalista venne chiamato a rispondere delle sue affermazioni in tribunale “Montanelli dovette più volte chiedere scusa, ammettere di essersi sbagliato, di aver capito male, di non essersi espresso bene, di essersi inventato di sana pianta particolari rilevanti”, scrive Claudia Pinelli. La figlia maggiore del ferroviere ricorda anche che, costretto a rimangiarsi tutto davanti al giudice, iniziò a sfaldarsi il “mito” di Montanelli anche nel procuratore generale, che disse: “E io che fin da ragazzo l’ho sempre considerata una specie di mito, oggi questo mito è crollato”.

    La lettera a Camilla Cederna del 21 marzo 1972
    L’altra figlia di Pinelli, Silvia, ha aggiunto un altro tassello al ricordo di Montanelli, pubblicando la “Lettera a Camilla” che il giornalista scrisse alla collega Camilla Cederna (una delle prime a indagare sulla morte di Pinelli, autrice del famoso libro “Pinelli: una finestra sulla strage”) sul “Corriere della sera” il 21 marzo del 1972, pochi giorni dopo la morte di Giangiacomo Feltrinelli. “La ricordavo vagamente – spiega a Fanpage.it Silvia Pinelli – ma l’ho recuperata grazie a un libro di Corrado Stajano, ‘La città degli untori’. È una cosa allucinante, anche come tipo di accuse che rivolge alla Cederna”.

    Nella “lettera a Camilla” Montanelli prima sembra “rimproverare” alla collega di essersi interessata tardi alla “cronaca” fatta di bombe e attentati, dopo anni passati come “testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi armata di cipria e piumino”. Poi Montanelli usa un tono e un linguaggio sessisti: “Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli, facendo anche del povero Pinelli un personaggio della cafè society, non mi stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d’uomo anche se forse un po’ troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci”.

    Silvia Pinelli: La statua di Montanelli va rimossa

    Anche per via di ciò che hanno vissuto sulla propria pelle, il giudizio delle figlie di Pinelli sulla figura di Montanelli è “estremamente negativo”. E rispetto al dibattito in corso sulla statua Silvia Pinelli aggiunge: “Va rimossa, può tranquillamente trovare un’altra collocazione. Magari se si farà il Museo della Resistenza può andare lì, per ricordare coloro che hanno combattuto per la Resistenza e quelli, come lui, che hanno sempre combattuto contro. Più che altro mi sorprende che non ci fu una discussione simile quando, nel 2006, venne collocata la statua”. Per Silvia Pinelli Montanelli “era fascista d’origine, e lo è sempre stato”. La figlia minore sposa in toto la definizione di Stajano su Montanelli: “Forcaiolo anarcoide, reazionario travestito da vecchio saggio”.

    continua su: https://milano.fanpage.it/le-figlie-di-pinelli-montanelli-disse-menzogne-su-nostro-padre-poi-dovette-chiedere-scusa/
    https://milano.fanpage.it/

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