Le lampade di Dendera: luce prima del tempo, o semplice pareidolia?

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La pareidolia visiva è l’illusione subcosciente che tende a ricondurre a forme note oggetti o profili (naturali o artificiali) dalla forma casuale. È la tendenza istintiva e automatica a trovare strutture ordinate e forme familiari in immagini disordinate

Fondazione Umberto Veronesi

Il tempio di Hathor a Dendera divenne famoso non solo per la sua ottima conservazione a livello archeologico, bensì per alcune delle lastre trovate, che sembrino rappresentare addirittura delle lampade ad energia elettriche, ma sono davvero questo? Sono davvero una scoperta che cambierebbe del tutto la storia?

Oppure abbiamo di nuovo a che fare, con una nostra visione della storia, costruita intorno ai concetti e ai preconcetti che stanno tutti intorno a noi?

Ma prima di tutto, facciamo degli accenni storici inerenti al periodo e il luogo di cui parleremo in questo articolo.

Un po’ di storia

Dopo essere stata sottomessa dai persiani durante la Battaglia di Pelusium del 525 a.C., la potenza egizia, già al tracollo dopo una storia millenaria, cessò veramente di esistere, infatti a susseguirsi ci saranno due dinastie guidate dagli achemenidi (il nome dei persiani che ebbero il loro regno dal 550 a.C. al 330 a.C.), la prima a partire dalla battaglia detta sopra fino alla ribellione di Amirteo del 404 a.C., la seconda, dopo una serie di ribellione, dal 380 al 332 a.C. (anche se in realtà gli egittologi la dividono in più dinastie), quando l’Egitto venne conquistato da Alessandro Magno, sovrano della Macedonia.

Dopo la disfatta persiana, i macedoni inglobarono l’Egitto nel loro impero, un regno che, purtroppo, durò poco come entità unica a causa della morte prematura del condottiero macedone nel 323 a.C., portando alla formazione della dinastia Tolemaica o Lagide.

Prendendo il nome del fondatore, ovvero Tolomeo Sotere (o Lago, suo padre), questo nuovo potere in Egitto decise di unire la cultura greco macedone, che verrà chiamata ellenistica e quella egizia e il tempio di Hathor a Dendera, nell’ Alto Egitto, ovvero la parte bassa di esso, ne è una chiara prova, fondendo la dea detta prima, ovvero Hathor, divinità inerente i sentimenti di gioia, amore e della fertilità femminile e quella di Afrodite, equivalente (più o meno) ellenistico.

Oltre al carattere di osmosi culturale e di inclusione veramente notevole, Dendera è famosa per un altro fattore, ovvero per le lastre da cui prende il nome il titolo, ovvero le sue “La Lampade”.

Le lampade di Dendera, ma che cosa erano?

Costruito intorno al 54 a.C., sebbene parte di esso fosse già stato iniziato dal faraone Nectanebo II intorno al 350 a.C. (il quale fece quella che venne chiamata “Parte Vecchia”) questo tempio (omonimo), in particolar modo, il corridoio centrale di esso, dove sono le incisioni, venne esplorato nel 1800 d.C. da Joseph Fourier, un fisico appassionato di Egitto che trovò subito due oggetti di estremo interesse per la sua mente fervida:

  • Le nostre lastre
  • Il cosiddetto “Zodiaco di Dendera”

 Purtroppo per noi, Fourier decise di studiare di più il secondo rilievo, il quale potrebbe essere materiale per un altro articolo, ma è a partire dal 1894 che la nostra storia entra nel vivo, grazie allo scienziato Joseph Norman Lockyer, il quale studiò approfonditamente l’incisione, le quali si presentano in questo modo.

L’incisione con le “lampade” di Dendera

Due figure, probabilmente divine, sostengono due grosse “lampade” con all’interno un “filo” che permetterebbe di portare la luce all’interno della lampada, inoltre, alla base di questi oggetti, ci sarebbero dei “cavi” sembrando quindi in tutto e per tutto delle gigantesche lampade, in grado di produrre energia elettrica, ergo, luce.

Sembra tra l’altro che queste lampade siano oggetto di culto e di riverenza, visto come sono messe le altre figure, anzi, sembra proprio che le venerino.

Lockyer, conosciuto ai più per essere “il padre dell’Elio” come molti uomini del suo tempo, purtroppo utilizzò un filtro inerente alla sua epoca per studiare il mondo antico, vedendo questi oggetti come quello che sembrerebbe agli occhi di molti, ovvero delle lampade, in particolar modo li paragonò ai tubi di Crookes, antenati dei tubi catodici che tutti noi conosciamo.

Sebbene non abbia mai detto che queste lampade potessero produrre elettricità, sulla rivista Nature (fondata da lui, per far capire il suo peso a livello accademico) scrisse:

«L’assenza di fuliggine è così evidente che il mio amico M. Bonriant (archeologo, ndr), mentre discutevamo di questo a Tebe, suggerì scherzosamente la possibilità che la luce elettrica fosse nota agli antichi Egizi».

Lockyer, considerato da molti studiosi dell’archeologia alternativa come uno dei nomi più importanti della disciplina, non fu l’unico ad occuparsi delle Lampade di Dendera, visto che esse attirarono l’attenzione di altre due figure, ovvero Peter Krassa e Rainer Habeck che scrissero il libro “Das Licht der Pharaonen. Hochtechnologie und elektrischer Strom im alten Ägypten” ovvero “La Luce dei Faraoni, tecnologia avanzata ed elettricità nell’ Alto Egitto”, andando a riprendere il lavoro di Lockyer ed ipotizzando che tutto l’Egitto fosse illuminato in questo modo, arrivando addirittura a parlare di armi a Luce.

I due, inoltre, in un loro passo scrissero come fosse possibile far funzionare queste lampade, dicendo che:

Se immettiamo un bulbo di vetro nel quale entrano due parti metalliche (B), (C), possiamo vedere una scarica a livelli molto più bassi, a seconda delle dimensioni del palloncino di vetro (D). Ad una pressione di circa 40 t (tonnellate) 40 mm di mercurio) un filamento luminoso a forma di serpente si snoda da una parte metallica all’altra (E). Se evacuiamo ulteriormente, il filamento luminoso si allarga fino a riempire tutto il palloncino di vetro. Questo è esattamente ciò che vediamo nelle immagini nelle camere sotterranee del santuario di Hathor.

Un altro studioso delle Lampade fu W. Garn, ingegnere elettronico, il quale nel 2019 ricostruì le lampade e mostrò che esse potevano per davvero produrre energia elettrica.

Rappresentazione artistica dell’ipotetica ricostruzione delle “lampade” di Dendera.

Anche Peter Kolosimo, uno dei principali studiosi dell’Archeologia alternativa si interessò moltissimo alle Lampade, ritrovandosi in molte delle idee enunciate da Krassa e Habeck nei loro scritti.

Il mistero, dunque, sembra risolto, siamo di fronte ad una vera e propria scoperta scientifica incredibile, gli antichi egizi avevano l’energia elettrica, ma era davvero così? O ci sono dei grossi dubbi inerente questa teoria?

Fin dagli inizi, queste teorie portarono a dei dubbi, portati avanti dallo stesso Lockyer, il quale non era un esperto di egittologia, ma solo un grande appassionato della storia orientale e antica, uno dei grandi miti del suo tempo, dubbi che ora, andremo a vedere.

Le lampade di Dendera… energia elettrica od “involucro” per gli dei?

Uno dei principali detrattori della teoria della Luce Divina (come viene chiamata da Kolosimo) fu il professor Wolfgang Waitkus, egittologo dell’Università di Amburgo, il quale spiega il vero significato delle Lampade, le quali, appunto, non sono tale oggetto, bensì qualcosa di molto più importante e sacro per la cultura egizia, ovvero i Djed.

Ma che cosa erano?

Essi erano dei simboli sacri all’interno del mondo egizio, essi rappresentavano la Spina dorsale del dio Osiride e la sua erezione, visto che il suo fluido vitale scorreva tramite la prima parte anatomica di cui abbiamo parlato, un simbolo di fertilità, soprattutto maschile e virile, ma anche di prosperità, visto che questo fluido vitale non solo rappresenta il seme maschile, ma anche il fiume Nilo, simbolo stesso della prosperità dell’Egitto. Chiamato a volte anche Zed, non aveva solo una forma di pilastro, ma anche più tondeggianti, in una maniera molto simile a quello di una lampada, come quelle del tempio di Hathor, divinità tra l’altro, molto legata ad Osiride, ma in questo caso, si parla anche di un altro essere divino.

Secondo Waitkus, esso rappresenterebbe:

Harsomtus, il grande dio che sta a Dendera, che sorge dal fiore di loto come Ba vivente (la parte di anima che viaggiava nel mondo dei morti, per poi tornare nel corpo una volta tumulato e mummificato, ndr), la cui perfezione è elevata dalle immagini del suo Ka (indica la forza vitale, cresce in continuazione anche dopo la morte e deve essere venerata anche dopo la morte dell’uomo o del dio, ndr), la cui immagine è adorata dall’equipaggio della chiatta diurna, il cui corpo è portato dal pilastro ‘dd’, sotto la sua immagine siede la primigenia (Hathor) e la cui maestosità è portata dai compagni del suo Ka.

Quindi, si parla di nascita, anzi, rinascita di una divinità, ovvero Harsomtus, l’Horus che unisce tutte e due le Terre, il termine egizio per parlare della loro terra, rappresentando il potere tolemaico che, conscio della pesantissima eredità che aveva sulle sue spalle, mostrava il suo continuare la strada dei faraoni.

La lampada, inoltre, non è una lampada, bensì un fiore di loto, il primo oggetto che emerse dal mare infinito e primordiale chiamato Nun, questo fiore dentro di sé aveva la forza per far nascere Atum-Ra, ovvero il sole stesso, simbolo stesso della rinascita.

Immagine più definita del rilievo di una delle “lampade” in cui appare con maggior evidenza il simbolismo mistico.

Vi è anche da dire che spesso i fiori di loto nelle incisioni egizie avevano spesso questa forma di lampada, una descrizione odierna che gli abbiamo dato noi, visto che siamo andati incontro di nuovo ad un grave problema in cui ogni studioso almeno una volta nella vita, ci è andato a sbattere contro, ovvero la pareidolia, ovvero vedere immagini a noi conosciute in un ambiente o un oggetto che non ha nulla a che fare col nostro concetto.

Sempre secondo gli egittologi, questi Djed rappresentano anche la rinascita egizia dopo l’occupazione persiana, un gesto politico che serviva a far capire alla popolazione egizia che dopo due secoli, erano finalmente liberi, fatto abbastanza propagandistico, visto che durante il dominio achemenide, la libertà di culto venne mantenuta a tutti gli effetti e lo Shah persiano prese anche il titolo di Faraone per poter dare anche lui la continuità di questo popolo, uno dei più antichi a livello storico finora conosciuti.

Una cosa alquanto buffa è dovuta alla diatriba che ci fu tra Waitkus e Habeck visto che il secondo disse che gli egittologi non dovrebbero parlare di queste cose, visto che non sono laureati in ingegneria e/o fisica, peccato che Wolfgang Waitkus, oltre ad essere un egittologo, abbia anche una laurea in fisica.

Conclusioni

Ancora adesso, le lampade di Dendera vengono classificate come Out Of Place Artifacts, utilizzando il neologismo creato da Ivan T. Sanderson, ovvero quei reperti di cui non abbiamo capito ancora del tutto la loro funzione, ergo, il dibattito è ancora vivido e porta fonti da entrambe le parti.

Personalmente credo che siano solamente delle incisioni religiose e dedicate al nuovo regno tolemaico, che in quel momento, aveva attraversato secoli difficili, soprattutto a causa delle guerre contro i potenti Seleucidi, ovvero i macedoni che avevano ereditato l’impero persiano.

Siamo noi ad averci dato una visione inerente alle lampade, con dentro un filo elettrico, un sentimento normale, visto che è naturale per l’essere umano cercare conforto nelle cose che conosciamo di più, è nella nostra natura.


Riferimenti bibliografici:

  • Das Licht der Pharaonen. Hochtechnologie und elektrischer Strom im alten Ägypten. Peter Krassa, Rainer Habeck
  • Dendera – Les chapelles osiriennes – Transcription et Traduction. Wolfgang Waitkus
  • La civiltà egizia. Alan Gardiner