Carne da cannone

La guerra? Un calcolo matematico privo di sentimento.

Probabilmente il primo uso del termine “carne da cannone” appartiene al genio di William Shakespeare, che nel 1597 nell’Enrico IV fa dire a Sir Falstaff “…carne da cannone. In una fossa ci staranno bene come quelli migliori”. La forma precisa del grande scrittore inglese in effetti fu “food for powder” ovvero “cibo per la polvere”, intendendo la polvere da sparo, ma le traduzioni francesi della sua opera adattarono la frase nel più impattante “chair à canon”. Tuttavia la frase divenne celebre al punto di entrare nell’uso comune grazie alla graffiante penna di François-René de Chateaubriand (1768-1848), aristocratico francese monarchico reazionario che, nel suo libello antinapoleonico del 1814 Des Buonaparte e de Bourbons (Sui Buonaparte e i Borboni) scrisse “On en était venu à ce point de mépris pour la vie des hommes et pour la France, d’appeler les conscrits la matière première et la chair à canon”, ovvero “Si era giunti a un tal punto di disprezzo per le vite degli uomini e per la stessa Francia, da chiamare i coscritti la materia prima e la carne da cannone”.

Se la frase del nobile francese è un grido di dolore, pur politicamente interessato, contro l’oggettivo sperpero di vite che un ormai disperato ed irrazionale Napoleone stava imponendo alla Francia, le parole di Shakespeare contengono una ben maggior profondità e spietatezza.

Infatti carne da cannone o cibo per la polvere che dir si voglia altro non sono che efficaci esercizi di retorica che impattano sull’immaginario di chi legge. Ad essere quasi più importante è invece la frase “In una fossa ci staranno bene come quelli migliori”. Tale concetto può essere visto come uno sfogo moraleggiante, che in modo un filino banale dichiara l’uguaglianza di tutti gli uomini nella morte. Chi scrive, invece, vi legge un cinico ragionamento strategico o, per essere ancor più freddi, matematico.

Tutti gli eserciti della storia hanno avuto truppe di serie A e di serie B, e non sono mancate nemmeno le forze armate aventi quelle di serie C. Questo perché nessuno Stato, per quanto ricco, ha la possibilità di livellare tutti i suoi soldati sul livello dei reparti migliori. Inoltre gli eserciti necessitano di truppe combattenti e di reparti dedicati a mansioni di retrovia, quali logistica, comunicazioni, cucina, polizia militare, ecc. In caso di necessità questi militari sono stati spesso inviati al fronte, ma nessuno ha preteso da loro prestazioni pari ai camerati addestrati per la prima linea. Inoltre molte guerre del passato hanno visto un tale consumo di materiale umano da rendere necessarie mobilitazioni di massa a conflitto già iniziato: per forza di cose i nuovi soldati, strappati dalla vita civile e buttati nel carnaio, non potevano avere l’addestramento e l’esperienza di coloro che lo Stato aveva preparato alla guerra già in tempo di pace.

Da qui nasce la difficile ricerca dell’optimus tra qualità e quantità di soldati che un Alto Comando deve cercare di avere.

Partendo dal presupposto che la “carne da cannone” è un concetto valido per chi attacca (chi si difende è quasi sempre in inferiorità numerica, pertanto deve economizzare le perdite) risulta naturale che uno Stato Maggiore cercherà di salvaguardare le truppe migliori. Ne deriva che gli assalti frontali o le missioni disperate vedono quasi sempre in prima fila i sacrificabili, aventi lo scopo di logorare il nemico: una volta che l’avversario è stanco, sta finendo le munizioni o mostra dei cedimenti del fronte vengono mandati i soldati migliori a dare l’ultima spallata.

Una tale strategia si adatta in particolare a quegli Stati che potevano o possono schierare grandi numeri di combattenti e che, al contempo, non avevano o hanno sistemi politico-sociali che salvaguardino con particolare attenzione la vita dei propri sudditi/cittadini. Vediamo un esempio storico paradigmatico.

La fanteria dell’esercito ottomano del periodo classico (1451-1826) era suddivisa in tre grosse unità (più varie sotto unità). La prima erano gli Azab, una truppa di supporto di cui facevano parte anche i Başıbozuk, questi ultimi reclutati tra la feccia della società. Il loro scopo era attaccare frontalmente il nemico, macellarlo facendosi macellare e vivere di saccheggio. Non ricevevano una paga regolare. Sopra agli Azab venivano gli Yaya. Costoro nacquero come cavalleria e fanteria irregolare, ma poi si svilupparono in quella che può essere definita la truppa di base degli eserciti ottomani, con tanto di stipendio statale e parziale mobilitazione permanente. Solo a quel punto si arrivava all’orgoglio militare dei Sultani ottomani del periodo classico, ovvero i Giannizzeri. Figli e protagonisti di una complessa storia che esula questo articolo, i Giannizzeri erano al contempo l’élite militare professionista ed i pretoriani dell’Impero. Non stupisce che i Sultani ed i loro generali hanno sempre cercato di utilizzare le loro truppe nel seguente modo: primo assalto degli Azab/Başıbozuk; eventuale intervento degli Yaya, i regolari “classici”; solo in casi disperati utilizzo  degli spietati ma preziosi Giannizzeri.

Niente di troppo diverso dagli antichi persiani achemenidi o dal molto più recente Napoleone. I primi facevano intervenire i loro 10.000 Immortali solo dopo averle tentate tutte, mentre Bonaparte fu sempre restio ad utilizzare la su Guardia Imperiale, mandandola nella mischia solo nei cosiddetti “momenti supremi”.

In Occidente l’ultima guerra che ha visto assalti frontali di massa con relative perdite fuori scala è stata la Prima Guerra Mondiale. Fino a quel conflitto, semplificando molto, si può dire che qualunque regime e civiltà non ha mai avuto troppi problemi nel sacrificare i propri figli. Dopo quella mattanza, tuttavia, i Governi e le opinioni pubbliche delle democrazie (ed in parte persino della Germania nazista) hanno fatto il possibile per non ripetere gli orrori del ’14-’18. Ciò è dimostrato dal fatto che la Seconda Guerra Mondiale, sebbene abbia complessivamente causato più morti e molta più distruzione della Prima, mediamente per il singolo soldato al fronte sia stata meno atroce.

Dopo il 1945 per ragioni socio-politiche l’Occidente ha accentuato la cura per la minimizzazione delle perdite, sostituendo il più possibile la “carne” dei soldati con la potenza di fuoco e la precisione delle armi. Il risultato è stato che gli eserciti occidentali hanno raggiunto un potenziale distruttivo convenzionale mai nemmeno immaginato nella storia della guerra (per quanto mai utilizzato appieno per ragioni politiche, o meglio “politicamente corrette”). I nemici dell’Occidente, invece, non potendo competere con la nostra tecnologia, hanno continuato a fare affidamento sulla massa umana dei propri soldati, sebbene anch’essi siano da sempre alla ricerca del miglioramento tecnico-scientifico. Durante la Guerra Fredda questo diverso approccio strategico ha prodotto risultati altalenanti, riassumibile così: dopo il pareggio in Corea (costato ai maggiori azionisti, USA e Cina, rispettivamente 36.940 e circa 900.000 morti) le guerre corte sono state sempre vinte dall’Occidente, quelle lunghe dai suoi nemici. Questo perché gli eserciti del modo libero o ad esso collegato hanno dimostrato una sostanziale superiorità sul campo, ma le opinioni pubbliche delle democrazie non sono disposte a subire un lungo logorio di vite e denaro. Solo in caso un alleato dell’Unione Sovietica si trovò dal lato “tecnologico” della barricata, ovvero durante la Guerra Iran-Iraq del 1980-’88. In quel conflitto l’Iraq alleato dei sovietici utilizzò la dottrina militare russa, la quale mischia abilmente i numeri e la potenza di fuoco, mentre il paria internazionale Iran dovette affidarsi per lo più alle “ondate umane” dei suoi combattenti indottrinati da un islam fanatico e votato al martirio. L’asso nella manica dei rispettivi contendenti furono le devastanti armi chimiche iraqene e gli ex ufficiali dello Scià istruiti in Occidente, che il regime islamico fece uscire precipitosamente di prigione e che in nome del patriottismo diedero un enorme contributo. Risultato di questa guerra combattuta all’insegna di una sostanziale e reciproca incompetenza? Un pareggio costato dai 105.000 ai 500.000 iraqeni e dai 200.000 ai 600.000 iraniani.

Con la fine della Guerra Fredda l’Occidente, vittorioso ed autoconvintosi che il suo trionfo fosse sempiterno, ha iniziato a pensare alla guerra come ad una serie di operazioni di polizia internazionale (i terzomondisti direbbero spedizioni coloniali): conflitti asimmetrici dove le truppe occidentali vanno in un territorio afroasiatico, annientano il nemico e poi se ne vanno dopo un periodo più o meno lungo, con la situazione sul campo che torna più o meno alla situazione antecedente alla loro venuta, perché un conto è insegnare al Terzo Mondo che le armi occidentali fanno male, un altro è pretendere che imparino concetti come democrazia, uguaglianza uomo-donna, libertà di parola e via dicendo.

Questo “mondo beato” è stato brutalmente messo in soffitta da Putin. Il leader russo, infatti, scatenando l’Invasione dell’Ucraina, ha riportato alla luce la realtà della guerra nel senso classico. E qui arriviamo al calcolo matematico privo di sentimento del sottotitolo. Irrazionalmente convinto di effettuare una conquista lampo (quasi mai riuscita ai russi nella loro storia), il signore del Cremlino si è trovato impantanato da quasi tre anni in un conflitto di logoramento in cui le sue truppe, dopo aver inflitto e subito gravissime perdite, occupano circa il 20% del territorio ucraino e sono sostanzialmente bloccate in una guerra di trincea dove da quasi due anni nessuno dei contendenti ha la possibilità di effettuare uno sfondamento decisivo. Trincee, superiorità della difesa sull’attacco, avanzate che si calcolano in poche centinaia di metri a costi proibitivi. In breve una riedizione della Prima Guerra Mondiale.

Senza allargare il discorso alla situazione geopolitica, economica e di resistenza dei due Sistema-Paese russo ed ucraino la situazione creatasi sul campo lascia una sola strategia ai due avversari. L’Ucraina, vista la sua pesante inferiorità numerica in uomini ed armamenti, per ora può solo resistere il più possibile cercando di far pagare tonnellate di sangue ogni chilometro quadrato del suo territorio e, tuttalpiù, limitarsi a qualche contrattacco localizzato dal forte impatto propagandistico come quello nella regione di Kursk. La leadership russa, invece, se non vuole riconoscere una mezza sconfitta strategica (che rischierebbe seriamente di essere fatale all’attuale regime) deve attaccare. Ma la Russia di oggi, per quanto assai più coriacea dell’Occidente, non è più quella della prima metà del ‘900. Un po’ di benessere figlio del capitalismo è arrivato anche da lei e, con esso, la voglia di vivere. Pertanto Putin, che a metà novembre 2024 è arrivato a dover contare 700.000 perdite tra morti e feriti ed almeno un milione di emigrati, ha sempre maggiori difficoltà a chiamare nuove mobilitazioni di massa. Dopo aver arruolato masse di provinciali l’ultimo serbatoio demografico etnicamente russo che gli rimane è quello delle grandi città, ma è lì che si trova la parte più ricca e produttiva della Nazione: mobilitare i giovani istruiti delle grandi città potrebbe causare pericolosi scossoni nell’economia e nell’opinione pubblica. Pertanto la leadership russa dove sta reclutando la sua indispensabile carne da cannone? All’interno tra le minoranze etniche della Federazione Russa, in particolare popoli siberiani e caucasici, all’esterno tra gli alleati minori di Mosca, che essendo tutti Paesi del Terzo Mondo hanno tanti disperati da affittare in cambio di un po’ di grano e di tecnologia.

Ecco quindi cittadini russi di etnia buriata piuttosto che tuvana, arruolati in cambio di un montone o di una lavatrice inviati alle famiglie, e mandati all’assalto dopo un addestramento approssimativo. A fianco di mercenari africani piuttosto che nepalesi e di reparti regolari nordcoreani, anch’essi votati al massacro con lo scopo di stancare i difensori ucraini e fargli finire le munizioni. Né più né meno che truppa coloniale (l’abbiamo usata tutti, detto per inciso…).

Questo calcolo matematico privo di sentimento da parte della leadership politico-militare russa sa di disperazione, ma non è detto che non possa avere successo. L’Occidente inizia ad essere stanco di rifornire il suo martirizzato alleato ucraino, mentre Putin sa che può solo vincere o venire rovesciato (leggasi ammazzato) come tutti i dittatori sconfitti. Le truppe ucraine dopo quasi tre anni di guerra sono anch’esse esauste, sebbene ormai composte da veterani temprati. Logorarle ancora di più con masse di carne da cannone “diversamente russa” in attesa di un assalto finale (questo, sì, condotto con truppe di etnia russa armate ed addestrate al meglio) potrebbe essere l’agognata strategia per sfondare le trincee ucraine.

Chi si spezzerà per primo, la spada o lo scudo? La battaglia è ancora corso…


Riferimenti bibliografici:

  • L’impero ottomano, Suraiya Faroqhi, Il Mulino, Bologna, 2008.
  • Storia dell’Esercito Russo, Serge Andolenko, Odoya, Firenze, 1969.
  • Corea, la guerra dimenticata, Gastone Breccia, Il Mulino, Bologna, 2019.
  • Guerra Iran-Iraq, Andrea Beccaro, Grandangolo, Milano, 2016.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *