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La nuova politica internazionale dopo la morte di Ayman al Zawahiri.
Il 31 luglio 2022 è stata una data che passerà alla storia nella lotta contro il terrorismo globale: Ayman al Zawahiri è morto per mano di un’operazione americana (un drone della CIA); questa è la terza missione conclusasi con successo nel 2022 dopo l’eliminazione di due esponenti al vertice del Califfato Islamico (Abu Ibrahim Al-Hashemi al-Quraishi, a febbraio e Maher Al-Agal a luglio).
Quanto avvenuto non ha un’importanza unicamente strategica in quanto “decapitare” un gruppo terroristico (la cui caratteristica principale è la forte decentralizzazione che fa sì che i numerosi affiliati nelle varie parti del globo non dipendano direttamente dalla leadership centrale) pone comunque in difficoltà l’organizzazione chiamata a riorganizzarsi, ma ha un fortissimo impatto per gli Usa a livello politico internazionale che, dopo numerose disfatte, riesce a riconfermare la propria centralità sul piano strategico.
Il leader Al Zawahiri
Al Zawahiri, medico egiziano, a seguito della morte di Osama bin Laden nel 2011 (ad Abbottabad, in Pakistan) era diventato il massimo leader di Al Qaeda; in realtà si può facilmente ipotizzare che il loro operato fosse congiunto fin dagli esordi dato che il primo era la mente e lo stratega capace di creare una rete di connivenze e il secondo era il finanziatore e guida carismatica. La notizia ha fatto velocemente il giro del mondo e, durante un discorso pubblico, è stata confermata da Joe Biden nel pomeriggio del primo agosto.
L’Afghanistan rimane centrale anche in questa vicenda, infatti è proprio in questo stato che il leader aveva trovato rifugio e sembra che sia stato ucciso mentre si trovava nell’abitazione (precisamente sul balcone) di un personaggio di spicco dell’orbita talebana (Sirajuddin Haqqani, ministro dell’Interno ad interim e vice comandante supremo dei talebani). Questo aspetto è proprio quello determinante per capire i contorni della vicenda perché, al momento della ritirata, gli Usa (consapevoli che le forze di sicurezza ufficiali afghane non avrebbero avuto né la forza né i mezzi per contrastare il “nemico” osteggiato per un ventennio) avevano imposto la “promessa” ai Talebani di non allearsi più ad Al Qaeda, memori dell’appoggio offerto dal gruppo creato dal Mullah Omar ai terroristi legati ai fatti del tristemente noto 11 settembre.
Al di là delle reali intenzioni iniziali, era abbastanza prevedibile che questo patto non sarebbe stato rispettato: sia i Talebani sia al Qaeda hanno dimostrato di avere rapporti di profonda inimicizia con l’organizzazione creata da Abu Bakr al Baghdadi e il principio secondo cui “il nemico del mio nemico è mio amico” ha trovato una concreta attuazione.
Il ruolo Usa
Gli Usa, criticati a livello internazionale per alcune dubbie decisioni, hanno saputo dare conferma ai partner mediorientali che più volte hanno espresso preoccupazioni legate al disimpegno dall’area; nonostante il ritiro delle truppe viene data conferma che non verrà lesa la capacità strategica. Un’altra serpeggiante ipotesi, invece, racconta che siano stati i Talebani stessi a “denunciare” il leader agli Usa così che un ingombrante personaggio potesse essere “destituito” lasciando la possibilità alle autorità di Kabul di continuare a “lamentare” le ingerenze estere all’interno dello stato; quest’ultima “malizia” potrebbe trovare conferma nel fatto che l’abitazione dove si è consumato il raid sia nel quartiere Shirpur (nel centro della capitale) e che la villa in questione sia riservata esclusivamente ad alti funzionari del potere talebano.
La morte del leader qaedista, data per “scontata” per mesi, è stata rimessa in discussione in questi ultimi giorni di dicembre: Al Qaeda ha diffuso una registrazione di 35 minuti ed il gruppo sostiene che sia Ayman al-Zawahiri in persona a parlare. Tale documento non è datato, non è quindi possibile risalire al momento della creazione. Indubbiamente ha però una grande valenza simbolica il fatto che tale notizia trapeli nel corso delle festività natalizie.
La successione
Attualmente Al Qaeda non ha nominato un successore a capo del movimento, ma sembra che il candidato più “papabile” sia Saif al-Adel, un ex ufficiale delle forze speciali egiziane sulla cui testa gli Usa hanno posto una taglia di 10 milioni di euro.
Un problema organizzativo attanaglia Al Qaeda: alcune “filiali”, dato il lassismo dei vertici, sembrano aver acquisito troppa autonomia e il caso più evidente è quello degli jihadisti yemeniti.
Il fatto particolare da notare è che, all’epoca della morte, al-Zawahiri non fu dichiarato “martire” e ancora oggi ciò non è stato fatto: l’ipotesi improbabile che sia ancora vivo lascia in realtà spazio all’idea che questa sia una manovra mediatica per insinuare il dubbio sulla reale condizione del leader e non confermarne quindi il decesso. La stessa strategia fu attuata dai Talebani che per anni omisero la morte del famigerato Mullah Omar.