Quello di Boris Nikolaevič El’cin (1931-2007) è un nome giustamente odiato da tutti i regimi dittatoriali e criminalmente quasi dimenticato nei Paesi democratici.
Nato a Butka, cittadina di poco più di tremila abitanti sugli Urali, nel 1934 il padre e il nonno vennero arrestati durante le purghe staliniste. Il nonno morì in un GULAG, da cui il padre uscì dopo tre anni.
Negli anni ’50 il giovane Boris riuscì a laurearsi in ingegneria civile pur non essendo iscritto al Partito Comunista, evento abbastanza raro in Unione Sovietica. Divenuto funzionario edile nella città di Sverdlovsk, si mise in luce come gran lavoratore. Per tale ragione nel 1960 venne cooptato nel Partito, ma preferì tenersi lontano dalla politica vera e propria, concentrandosi sul lavoro amministrativo.
Apprezzato dai superiori per la sua incorruttibilità, caratteristica rarissima per un funzionario dell’URSS, nel ’76 El’cin venne nominato Segretario del Partito dell’Oblast’ (ente amministrativo a metà tra le nostre Province e Regioni) di Sverdlovsk. Da quel momento la carriera fu in ascesa: nel ’78 entrò nel Soviet Supremo e nell’81 nel Comitato Centrale.
Ma fu proprio il raggiungimento dei “piani alti”, da cui ebbe una visione a 360 gradi delle condizioni dello Stato, che convinse El’cin dell’irriformabilità dell’URSS e della sua morte imminente. Con l’arrivo al potere di Gorbačëv iniziò ad esprimere apertamente le sue opinioni e nel 1987 entrò per la prima volta nella storia, divenendo il primo ed unico membro del Politiburo a dimettersi dall’incarico, come protesta per la lentezza ed inconsistenza delle riforme che avrebbero dovuto democratizzare la politica e liberalizzare l’economia dell’asfittica URSS. Da notare che il Politburo era l’organo supremo del Governo sovietico, il luogo dei massimi potere e privilegio.
Subito dopo sopravvisse ad un presunto tentativo di “suicidio” e ad una massiccia campagna denigratoria attuata contro di lui dal regime. Ormai odiato dal sistema sovietico e amato dal popolo riuscì, grazie alla parziale democratizzazione attuata da Gorbačëv, a vincere le elezioni per la Presidenza della Repubblica Sovietica Russa (intesa come membro maggiore dell’URSS). In tale elezione si impose con il 57% dei suffragi sul candidato comunista, che prese il 16%, e su quattro candidati minori.
Dalla posizione di Presidente russo divenne il leader dei riformisti e l’acerrimo nemico di Gorbačëv, il quale cercava di mediare tra i liberali e i vecchi comunisti.
L’ora della gloria, tuttavia, arrivò nel celebre 1991, quando la sua guida coraggiosa ed istrionica (sono passate alla storia le immagini del suo comizio improvvisato sopra ad un carro armato dei golpisti circondato da una folla di sostenitori disarmati) fu fondamentale per fare fallire il Golpe d’Agosto attuato dalla vecchia guardia comunista e da parte del KGB.
Con il fallimento del Colpo di Stato comunista della iniziarono gli ultimi sei mesi di vita dell’URSS. In questo lasso di tempo quasi tutte le repubbliche sovietiche dichiararono l’indipendenza da Mosca, mentre nella Russia propriamente detta si ebbe la paradossale situazione di due teorici centri di potere: quella di Gorbačëv, teoricamente ancora Presidente dell’URSS (carica istituita da poco), e quella di El’cin, Presidente eletto della Russia.
Furono sei mesi febbrili, nei quali El’cin azzerò la struttura del Partito Comunista ed umiliò la leadership di Gorbačëv, rendendo de facto la Russia indipendente dall’Unione Sovietica e costringendo il rivale, ormai leader senza autorità di uno Stato che aveva cessato di esistere, a delle umilianti dimissioni.
L’8 dicembre 1991 El’cin, con i colleghi Presidenti ucraino e bielorusso sottoscrisse la morte legale dell’URSS e, il 25 dello stesso mese, fece ammainare dal Cremlino il vessillo leninista, per issarvi la bandiera col tricolore nazionale russo creato da Pietro il Grande (a imitazione di quello olandese).
La sanguinosa parentesi sovietica della storia russa era finalmente conclusa, ma dopo settant’anni di comunismo l’economia del Paese era devastata. Povertà, disoccupazione, alcolismo e sfacelo sociale dilagavano. A ciò si aggiunsero le difficoltà con le minoranze, in particolare i ceceni islamici, che umiliarono le decadute Forze Armate russe in una guerra di secessione.
In questo disastro ereditato da altri la prestazione governativa di El’cin fu tanto eroica quanto tragica. Nel 1993 senza andare per il sottile (187 morti) spezzò un tentativo di Colpo di Stato dei nostalgici comunisti e ne approfittò per cancellare definitivamente il sistema politico ereditato dall’URSS. Due successivi referendum popolari approvano le sue azioni a larghissima maggioranza. La liberalizzazione dell’economia fece rientrare la Russia nel novero dei Paesi civili, ma venne effettuata in modo assai imperfetto. La conseguenza principale fu la nascita dei cosiddetti oligarchi: non dei nuovi ricchi, come falsamente è stato fatto credere in Occidente, ma ex dirigenti economici sovietici che, sfruttando le loro conoscenze politico-burocratiche, divennero proprietari di enormi asset industriali.
Per il resto della sua Presidenza El’cin fu sostenuto e ricattato da questo gruppo di miliardari, la cui influenza venne poi ridimensionata ma certo non azzerata da Putin.
In politica estera invece il peso di Mosca era ai minimi storici, a causa dell’economia sconquassata e delle Forze Armate sotto finanziate e nel pieno di una devastante crisi riorganizzativa. In questo sfacelo El’cin riuscì a reinserire la Russia nella Civiltà Occidentale, ma dovette subire molte umiliazioni che indebolirono la sua immagine di fronte all’orgoglio nazionale e che non fanno certo onore alla sagacia dei leader occidentali, i quali mancarono completamente della capacità di prevedere le conseguenze della disaffezione per la democrazia in un popolo privo di profonde radici democratiche. Eppure sarebbe bastato studiare la storia della Repubblica di Weimar e dirottare in Russia un po’ dei soldi buttati nell’immondizia della cosiddetta “cooperazione internazionale” nel terzo Mondo!
A livello istituzionale El’cin, invece, merita un posto nella storia. Sotto di lui la Russia visse una stagione di pluralismo e democrazia degni di questo nome, il cui ricordo non ha potuto essere cancellato nemmeno dai vent’anni del più efficiente autoritarismo putiniano (efficienza, sia ben chiaro, permessa per lo più dall’aumento del prezzo degli idrocarburi a seguito dell’11 settembre).
Tuttavia le crisi economiche, per lo più causate da fattori internazionali o ereditati dall’URSS, distrussero gran parte del buono dell’era El’cin e predisposero la società russa al ritorno di un certo grado d’autoritarismo, purché desse l’immagine di efficienza. Tali avversità logorarono lo stesso Presidente, troppo dedito all’alcol, con la salute malferma e circondato da una corte di corrotti e corruttori.
Ormai alla fine del suo ultimo mandato, venne convinto alle dimissioni anticipate dagli oligarchi, decisi di sostituirlo con uno sconosciuto ufficiale dei servizi segreti di nome Vladimir Putin, che essi credono un burattino. Con il fiuto di sempre il vecchio leone li sconsigliò di portare al Cremlino quell’ex ufficiale del KGB, arrivando a dire “Io quel piccoletto al Cremlino non lo voglio” (citato nel marzo 2022 da Massimo Gravellini per il Corriere della Sera). Non fu ascoltato, cosa di cui molti si pentiranno e se ne pentiranno.
Il 31 dicembre El’cin rassegnò le dimissioni con un discorso televisivo. Come nei giorni eroici dell’agosto 1991 parlò in faccia al suo popolo, stavolta fisicamente debilitato ma senza mai nascondersi. Rivendicò la libertà conquistata e la fine di una spietata dittatura. Poi, con un’onestà commovente, chiese scusa ai suoi concittadini per non aver realizzato molti dei sogni e delle speranze del 1991. Ritiratosi a vita privata, nel 2004 criticò la riforma con cui Putin sostituì l’elezione dei Governatori regionali con la nomina presidenziale, definendola un ritorno al sistema sovietico. Muore nel 2007 all’età di 76 anni, divenendo il primo capo di Stato russo a venire sepolto il chiesa dai tempi del penultimo Zar Alessandro III. Putin proclamò il lutto nazionale e gli riconobbe i funerali di Stato.
L’eredità di El’cin è bifronte, ma grandiosa. Con lui la Russia è uscita da un incubo durato settant’anni e costato decine di milioni morti. Grazie a lui un Paese martoriato da ottocento anni di autoritarismo ha sperimentato una vera per quanto breve democrazia. La decadenza fisica e politica hanno distrutto tale immagine, lasciando il ricordo di un alcolizzato alla guida di una Nazione allo sbando, invece di quella dell’eroe che sale su un carro armato per liberare il suo popolo dalla tirannia. Malgrado ciò negli anni successivi alla sua morte in Russia sono aumentati monumenti e musei in suo onore. Su tutti il più notevole è il Centro Presidenziale Boris El’cin, inaugurato nel 2015 e dal 2023 fatto mettere sotto indagine da Putin come “luogo di potenziale attività di agenti stranieri”. Come ben si vede basta il ricordo del distruttore di una tirannia per terrorizzare colui che vorrebbe restaurarla e che sta attuando un’imbarazzante rivalutazione storiografica di Stalin.
Tutte queste vicissitudini della sfortunata Russia sono la prova che il riconoscimento della grandezza di Boris El’cin è una pianta destinata a crescere nel tempo. Si spera insieme ai semi della democrazia russa alla quale ha dedicato la sua vita.
Riferimenti bibliografici:
- La caduta dei profeti. Alberto Pasolini Zanelli, De Agostini, Novara, 1990.
- La Russia dopo Putin. Yurii Colombo, Castelvecchi, Roma, 2023.
- Storia della Russia. Nicholas V. Riasanovsky, Bompiani, Milano, 2002.
- https://www.politico.eu/article/russia-probes-boris-yeltsin-museum-for-foreign-agent-activity