Sotto il regno di Ivan il Terribile, per la prima volta, le forze moscovite oltrepassarono la catena montuosa che divide l’Europa dall’Asia. Fu l’inizio di un’espansione che avrebbe portato i russi al dominio della Siberia e persino dell’Alaska.
Il regno di Ivan IV (1530-1584) detto Groznyj, ovvero il Temibile o il Poderoso (anche se ha avuto maggior successo l’imprecisa traduzione il Terribile), si può dividere in due fasi. Nella prima colui che per primo assunse il titolo di Zar fu un buon governante, per quanto non scevro dalla durezza del suo contesto spazio-temporale. Ivan, infatti, rese sicuri i confini con l’enorme regno polacco-lituano ad ovest e con l’emergente potenza svedese a nord, abbellì Mosca e, soprattutto, espulse gli ultimi khanati mongolo-islamici dalla Russia propriamente detta. Tali potentati, in particolare quelli di Kazàn’ e di Astrachan’, erano gli eredi della frammentatasi Orda d’Oro, ovvero il più occidentale dei regni nati dalla divisione dell’impero di Gengis Khan. Con la loro esistenza essi rappresentavano la continuazione del nefasto Giogo Mongolo, principale causa delle successive tragedie della storia russa. Come se non bastasse le dinastie e gran parte della popolazione tartaro-mongola di tali Stati era da tempo convertita all’islam, cosa che li rendeva la potenziale longa manus dell’allora potentissimo Impero ottomano. Tale minaccia andava estirpata, ed Ivan il Terribile vi si impegnò a fondo. Con una serie di campagne militari sconfisse ed annetté alla Moscovia i khanati, senza trascurare la progressiva conversione al cristianesimo ortodosso dei loro abitanti. In sostanza, Ivan IV conquistò e rese europee tutte quelle terre che oggi, grosso modo, costituiscono la Russia meridionale.
Fu dopo questi trionfi di portata storica che iniziò la seconda fase del regno dell’ultimo sovrano della dinastia rjurikide. Fase in cui la follia del monarca, causata dal dolore per la morte della prima adorata moglie e da una violenta febbre cui sopravvisse miracolosamente, la fece da padrona. Furono anni nefasti per la Russia, in cui le precedenti conquiste ad ovest vennero perse a favore di Svezia e Polonia-Lituania (ad oriente, per fortuna, i nemici potenzialmente letali erano stati distrutti), i Tartari di Crimea incendiarono Mosca, i nobili russi, detti boiari, vennero brutalmente massacrati ed infine gli sgherri personali dello Zar, i lugubri Opričniki, scorrazzarono impunemente tra saccheggi, omicidi e stupri. Persino il crudele erede al trono ebbe la testa sfondata dallo stesso padre.
Eppure il sopracitato periodo di follia zarista sparse il seme di un evento positivo che avrebbe cambiato la Storia del mondo: la conquista e la russificazione (quindi europizzazione) della Siberia. La nascita di quest’ardita idea tuttavia non fu merito di Ivan il Terribile, bensì di una nobile famiglia che, forse anche per tenersi lontana dalle follie moscovite, investì molto nel commercio con le terre ad est degli Urali: la famiglia Stroganov.
Inizia l’avventura
Nella seconda metà del ‘500 la Siberia era una landa pressoché sconosciuta e spopolata. Tuttavia la sua parte adiacente al versante orientale degli Urali era occupata da un’entità statuale definita, seppure relativamente debole: il khanato di Sibir. Tale khanato, che avrebbe dato il nome all’intera immensa regione, era anch’esso un brandello islamizzato del fu impero gengiskhanide. I suoi sovrani, tra le altre cose, non erano affatto amichevoli con i mercanti russi, tanto da obbligarli a pesanti tributi e spesso a ridurli in schiavitù. Ma nella seconda metà del ‘500 gli equilibri di forza tra le Civiltà stavano cambiando e, mentre l’Europa occidentale poneva le basi per i suoi duplicati oltre Atlantico, la Russia s’apprestava ad un’impresa altrettanto straordinaria verso oriente. Con l’autorizzazione dello Zar gli Stroganov assemblarono un piccolo esercito con cui entrare in Asia. Si trattava di appena 540 cosacchi supportati da 300 servitori. Tuttavia, similmente ai quasi coevi conquistadores iberici, i numeri erano compensati da un armamento d’avanguardia (in particolare un’ampia dotazione d’archibugi e due cannoni) e da una disciplina ferrea quanto brutale. Li capitanava un personaggio degno dei romanzi di Emilio Salgari: Yermak Timofeevič (tra il 1532 ed il 1542-1585). Cosacco del Don, quindi ucraino, a capo di una banda di predoni, con il rafforzarsi dell’autorità zarista nella sua regione natia si trasferì coi suoi uomini nel nordest. Qui, al servizio degli Stroganov, divenne il guardiano delle attività commerciali della potente famiglia, proteggendole dalle incursioni dei tartari siberiani. Né più né meno che un brigante trasformatosi in specialista nella lotta al brigantaggio. Sotto la sua guida, nell’estate del 1581, il piccolo esercito russo-ucraino attraversò i monti, entrò in Asia ed attaccò l’islamico khanato di Sibir. Quella che seguì fu una guerra di due anni, con qualche strascico di guerriglia, in cui lo Stato tartaro scomparve. La differenza la fecero le armi da fuoco, contrapposte agli archi, e la superiore disciplina degli europei. Di fronte a ciò gli oltre 3.000 guerrieri del khan Küçüm (…-1605) vennero sconfitti senza appello, specie nella decisiva battaglia di Čuvaš del 23 ottobre 1582. Sebbene la guerriglia anti russa sia durata fino al 1595, arrivando ad uccidere lo stesso Yermak, tale battaglia fu l’inizio di un processo inesorabile. Con la fine del khanato di Sibir, infatti, non vi erano più entità statali che separassero i territori russi dal Pacifico e dalla Cina della dinastia Manciù.
Le spedizioni successive all’impresa di Yermak furono anch’esse, in larga parte, opera dei cosacchi al servizio degli Zar. L’esplorazione e la conquista di un territorio lungo 5.000 km, costituente la più grande massa continentale del pianeta, fu, al contempo, un’impresa simile alle progressive esplorazioni portoghesi intorno all’Africa ed alle vittorie dei conquistadores spagnoli. Anche i metodi usati furono simili. Infatti l’avanzata russa fu metodica e spietata. Per prima cosa si organizzava una spedizione sulla falsariga di quella che attraversò gli Urali, sebbene raramente così numerosa. Tale spedizione si inoltrava in territorio sconosciuto, prediligendo quando possibile i corsi dei grandi fiumi siberiani. Quando si incontrava una tribù asiatica la si poneva di fronte ad una scelta: sottomettersi e pagare il tributo alla Zar invece che al proprio capo tribù o venire sterminata. Una volta accettata la sottomissione della popolazione incontrata, o dopo averne schiacciato la resistenza, i conquistatori/esploratori costruivano un insediamento fortificato, detto ostrog. Tali villaggi, da cui si sarebbero sviluppate molte città siberiane attuali, venivano popolati da piccoli gruppi di coloni provenienti dalla Russia europea, raramente superiori alle 400 persone, in modo da garantire la governabilità ed il possesso perenne delle terre scoperte. Finita l’edificazione dell’ostrog l’intera procedura veniva ripetuta, finché il cosacco Ivan Jur’evič Moskvitin (…-dopo il 1647) raggiunse l’Oceano Pacifico, nella zona del gelido mare di Okhotsk. Era il 1639, appena 58 anni dopo che Yermak ed i suoi avevano superato la barriera geografica, politica e psicologica degli Urali. Ma, come vedremo, l’incredibile epopea non si sarebbe fermata nemmeno di fronte all’oceano. Un altro cosacco infatti, Semën Ivanovič Dežnëv (1605-1672), nel 1648 navigò lungo la costa nord dell’estremità orientale della Siberia, scoprendo per primo che la massa eurasiatica e quella nordamericana sono divise dallo Stretto di Bering. Se tale stretto porta il nome del successivo esploratore danese, in loco del suo, è perché il suo rapporto originale rimase dimenticato nell’archivio di un ostrog per cent’anni (potenza della famigerata burocrazia russa).
Gli esiti della conquista
Dobbiamo ora valutare l’effetto della conquista russa della Siberia e le sue conseguenze. Innanzi tutto, come abbiamo visto, per lo più fu una conquista cruenta. Oltre al khanato di Sibir anche le popolazioni mongole e tunguse non statualizzate, per lo più, scelsero la guerra. Tali lotte divennero particolarmente spietate nelle regioni ad est del grande lago Bajkal, dove gli indigeni godettero del vantaggio di territori ancor più immensi e scarsamente popolati (quindi adatti alla guerriglia) o dell’appoggio dell’Impero cinese. Analizziamo alcuni episodi particolari che trasformarono brutalmente la Siberia, da propaggine dell’Asia, a parte integrante della Russia, quindi dell’Europa. Nel 1631, il cosacco Pyotr Beketov (1600-1661) venne inviato ad esplorare e sottomettere la regione del lago Bajkal. Giunto alle sorgenti del fiume Lena, che scoprì lui stesso, iniziò una campagna di conquista che, da un lato, portò alla fondazione della maggior parte delle principali città russe ancor oggi esistenti nella regione, dall’altro significò la quasi scomparsa delle tribù asiatiche dalla zona. Oltre a costruire gli ostrog di Yakuts, Chita e Nerchinks, infatti, Beketov sconfisse i nativi, li obbligò al tributo in natura (ovvero pellicce) e ne rapì i più sani per venderli come schiavi.
Ancor più spietato ed efficace fu Vasilij Danilovič Pojarkov (incerto-1668). Partito nel 1643 con 133 uomini e l’incarico d’esplorare la regione del fiume Amur, presto incontrò la tribù dei Dauri. Tale popolazione era parente dei Manciù (allora in piena conquista della Cina), pagava un tributo ai sovrani della dinastia Qing ed era più evoluta delle genti turco-mongole precedentemente incontrate. Malgrado il grosso rischio di incorrere in rappresaglie del potente regno manciù (ormai avviato a divenire un impero) Pojarkov decise di procedere come da programma. Ne seguì un’avventura di un anno che, se non portò a conquiste territoriali per gli Zar, ampliò le conoscenze geografiche russe. Ma tale conoscenza ebbe un costo. Dovendo passare il terribile inverno siberiano in territorio ostile e soggetto alle imboscate, Pojarkov durante i mesi freddi si fortificò, arrivando a far divorare i guerrieri dauri sconfitti e catturati. Col ritorno della bella stagione lui ed i soli 40 sopravvissuti della spedizione costruirono una flottiglia, tornando con essa in territorio russo sulle coste del mare di Okhotsk. L’accusa di cannibalismo scosse persino i coriacei governatori di frontiera, che inviarono Pojarkov a Mosca per subire un processo, il cui esito ci è ignoto.
Dopo Pojarkov fu la volta di un altro grande cosacco e conquistador in salsa russa, il geniale e spietato Yrofej Pavlovič Khabarov (circa 1603-circa 1671). Inviato con 130 soldati a sottomettere la regione che Pojarkov aveva esplorato, applicò alla missione una tale durezza da sconfiggere un primo esercito di 1.000 dauri. I sopravvissuti fuggirono verso sud, in cerca di protezione presso l’imperatore manciù. Nei suoi diari Khabarov non lesinò sui particolari, arrivando a descrivere le torture inflitte ai nemici ed ad elencare con precisione quanti i suoi uomini ne uccidessero di volta in volta, così come descrisse accuratamente grandezza e posizione dei villaggi saccheggiati e bruciati. Ma ormai si era entrati nella sfera d’influenza cinese, nella quale l’imperatore celeste non poteva non reagire. Nel 1652 inviò quindi un numeroso esercito contro i cosacchi, ma Khabarov lo sconfisse e ne sterminò la maggior parte dei componenti.
Fu l’inizio di una serie di scontri di confine sino-russi, in cui la relativa superiorità bellica degli europei (anche i cinesi usavano i cannoni) venne sconfitta dai numeri che gli asiatici potevano mettere in campo e, soprattutto, dalle impossibili distanze che la logistica russa dovevano percorrere. Il tutto con enorme dispendio per entrambi gli imperi. Tale guerra di confine si protrasse fino al 27 agosto 1689, quando i due governi stipularono il Trattato di Nerčinsk, grazie al quale i confini vennero stabiliti con chiarezza. Tecnicamente si trattò di una sconfitta della Russia, che dovette arretrare non poco le sue rivendicazioni. Ma il Trattato rappresentò molto di più, poiché per la prima volta l’altezzoso Impero cinese trattò alla pari con una potenza straniera, senza permettersi di chiedere il tributo simbolico. Detto questo a Nerčinsk venne stabilito fino al 1858 il lungo confine sino-russo, anno in cui i cinesi, con il Trattato di Aigun, cedettero la regione di Vladivostok.
L’ultima regione ad essere sottomessa fu la Kamchatka, la grande penisola all’estremità orientale della Siberia. Nel 1697 il cosacco Vladimir Vasil’evič Atlasov (1661-1714) venne inviato ad esplorarla con 65 uomini ed alcune guide. Tra le altre cose incontrò i bellicosi Koryaki, che, va da sé, sottomise con violenza estrema. Messo in carcere per alcuni anni con l’accusa di aver assaltato anche una carovana russa, nel 1711 venne rimandato in Kamchatka per sedare l’ennesima rivolta, ma fu ucciso nel 1714, non si sa se dai nativi o da degli ammutinati. In ogni caso la grande penisola si sarebbe dimostrata un osso duro per gli Zar, tanto che poté dirsi pacificata solo dopo il 1730 a seguito del quasi completo sterminio degli indigeni.
Quanto fu importante la conquista e la russificazione della Siberia? Probabilmente incalcolabile, al pari della conquista delle Americhe. In entrambi i casi la Civiltà Occidentale portò entro la propria sfera di controllo due territori immensi che, se lasciati a se stessi, avrebbero potuto divenire pericolosi per gli europei stessi o venire conquistati da altre culture, quali l’islamica o la cinese. Retrospettivamente tale mortale pericolo ci fa benedire gli esploratori/conquistatori di etnia e civiltà europea, fossero essi genovesi, russi, spagnoli, portoghesi, olandesi, francesi, britannici o, in seguito, statunitensi. Senza ipocrisia abbiamo il dovere di affermare che il costo umano dell’espansione passata è stato un prezzo necessario, che i nostri antenati pagarono per garantirci il benessere e la sicurezza attuali. In particolare la conquista della Siberia mise fine alle ricorrenti invasioni asiatiche (compiute in gran parte dalle stesse popolazioni poi schiacciate dai russi), che disastri e massacri immani avevano inflitto all’Europa centro-orientale fin dall’Età del Bronzo. Dopo 2.000 anni l’evoluzione scientifica europea (figlia di quell’incredibile trinità composta da logica greco-romana, vigore nordico e cristianesimo) aveva finalmente permesso alla civiltà del mattone e dell’aratro di sconfiggere la cultura del cavallo e della razzia.
Certo i metodi furono spesso brutali, ponendo i russo-cosacchi in prima posizione nelle efferatezze compiute, seguiti dai conquistadores spagnoli e, a distanza, dai coloni del West americano. Tuttavia la nostra percezione in merito è distorta, anzi rovesciata, da un potentissimo elemento che ha glorificato i pellerossa ed ignorato i siberiani asiatici: Hollywood. Il grande cinema, con le sue innumerevoli produzioni a carattere terzomondista, volutamente ignora che oltre il novanta per cento dei morti tra i precolombiani (così come tra i popoli siberiani) avvennero non a causa di uccisioni, che pure furono abbondanti, ma perché tali comunità vennero in contatto con agenti patogeni involontariamente portati dagli europei, contro i quali non possedevano un adeguato sistema immunitario (in particolare vaiolo e morbillo, mentre loro ci passarono la sifilide). Perciò, al netto di quanto sopra, dobbiamo solo rendere gloria imperitura alle persone geniali e spietate che hanno portato l’Europa oltre gli oceani ed attraverso la Siberia, trasformando larghe porzioni del pianeta, da regioni a noi potenzialmente ostili, in macro regioni appartenenti alla nostra sfera antropologica, una sorta di “Europa Magna”, per parafrasare l’antica colonizzazione greca. Negare la nostra riconoscenza, o addirittura infangarne la memoria, in modo nichilista e terzomondista alle persone che hanno creato la Civiltà Occidentale (termine impreciso ma riassuntivo) equivale ad avviarsi all’autoestizione.
Alaska
Concludiamo il nostro viaggio con la storia dell’estrema propaggine dell’Impero russo. Il breve, per quanto insidiosissimo, stretto di Bering rallentò ma non fermò l’espansione russa. Infatti negli anni successivi al 1730 gli Zar finanziarono una serie di spedizioni navali che, oltre a sterminare gran parte dei bellicosi abitanti delle isole Aleutine, crearono una stabile presenza russa in America. Nel 1799, venne creata la Compagnia Russo-Americana, avente scopo la monopolizzazione del commercio delle pellicce e la colonizzazione in Alaska. Per qualche anno sembrò che sulle coste occidentali del Nordamerica dovesse ripetersi la straordinaria avventura siberiana, tanto che nel 1812 venne fondato Fort Ross, il più meridionale degli insediamenti russi, che oggi si trova in California, nei pressi di San Francisco. Ma l’Impero degli Zar aveva raggiunto il suo limite massimo. Onde evitare complicazioni con l’impero coloniale spagnolo e successivamente britannico i russi preferirono retrocedere, fino a quella che oggi è l’Alaska. In questa regione immensa e ricca di risorse, ma poco abitabile per il clima, il commercio russo fu florido, mentre la colonizzazione assai scarsa. Inoltre si trattava di una propaggine indifendibile. Per tali ragioni il governo di San Pieturoburgo, nel 1867, decise di vendere il possedimento agli USA, al costo di 7.200.000 dollari di allora (cifra comunque molto bassa). 90 anni dopo l’Alaska, ormai americana in tutto e per tutto, sarebbe divenuta il 50esimo Stato membro degli Stati Uniti.
Riferimenti bibliografici:
- John Ure, Cosacchi, Casale Monferrato, Piemme, 1999;
- Nicholas V. Riasanovsky, Storia della Russia, Milano, Bompiani, 2001;
- Henri Troyat, Ivan il Terribile, Milano, Bompiani, 2001;
- Massimo Livi Bacci, Storia Minima della popolazione del mondo, Bologna, Il Mulino, 1998.